Santi & Sposi
LUGLIO
Sommario
San Teodorico di Mont-d'Or Abate
Santa Monegonda Venerata a Tours.
San Raymond Gayrard Canonico di Tolosa.
Sant'Elisabetta di Portogallo Regina
Santa Marta Madre di San Simeone Stilita il Giovane
Santa Ciprilla di Cirene Martire.
Santa Sexburga Regina del Kent, badessa
San Tranquillino di Roma Martire
Beato Pietro To Rot Martire della Papuasia
Sant' Etelburga (Edilburga) Badessa vergine e sposa di Sant’Edwin Re
Santi Aquila e Priscilla Sposi e martiri, discepoli di San Paolo
Sant'Edgaro il Pacifico Re d'Inghilterra
Beato Adriano Fortescue Cavaliere di Malta, terziario domenicano, martire
Beati Francesco, Abdel-Mooti e Raffaele Massabki Martiri maroniti
Sant'Amalberga di Maubeuge Vedova e monaca.
Sant'Olga di Kiev Granduchessa
Beati Giovanni e Caterina Tanaca Sposi e martiri
Sant'Agnese Le Thi Thanh (De) Madre di famiglia, martire
Sant'Emanuele Le Van Phung Padre di famiglia, martire
San Vincenzo Madelgario Sposo, monaco
Beata Angelina da Montegiove, detta anche da Marsciano, da Corbara o da Foligno
Beato Hroznata (Hrornata, Croznato) Martire premostratense
San Vladimiro di Kiev Principe.
Santa Lang Yangzhi Martiri cinesi + Lüjiapo, Cina, 16 luglio 1900
Santa Teresa Zhang Hezhi Martire
Beata Costanza d’Aragona Regina
San Nicola II Romanov Zar di Tutte le Russie
Santa Edvige (Jadwiga) Regina di Polonia.
Santa Sinforosa e sette figli Martire
Santa Elisabetta Qin Bianzhi e suo figlio Simone Qin Chunfu Martiri
Santa Milica Principessa serba
Sante Maria Zhao Guozhi e le figlie Rosa Zhao e Maria Zhao Martiri
Santa Lucia Wang Wangzhi Madre di famiglia, martire
Santa Maria Zhou Wuzhi Martire
Santa Brigida di Svezia Religiosa, fondatrice
Beato Giacomo I d’Aragona Re, cofondatore dei Mercedari
Beato Candido Castan San José Martire
Santa Kinga (Cunegonda) Regina di Polonia
Beata Ludovica di Savoia Principessa, Clarissa
Beato Michele Peiro Victori Padre di famiglia, martire
San Fiorenzo Martire a Furci (?)
Sant'Anna Madre della Beata Vergine Maria
San Gioacchino Padre della Beata Vergine Maria
Beata Camilla Gentili di Rovellone
Beata Sancia di Leon Sposa, religiosa
San Raimondo Zanfogni, detto Palmerio Laico
Santa Natalia ed Aurelio, Liliosa e Felice Martiri a Cordova
Beata Chiara (Sancia di Maiorca) Regina di Sicilia
Beati Luigi Martin e Zelia Guerin Genitori di S. Teresa di Gesù Bambino
Sant'Olav (Olaf) Re di Norvegia, martire
Sant'Angelina Despota di Serbia
Sant'Elena (Elin) di Skovde Vedova e martire
Beato Giovanni Colombini Fondatore dei Gesuati
Beato Francesco (Franciszek) Stryjas Padre di famiglia, martire
Baldovino I di Sassonia-Coburgo-Gotha Re dei Belgi Testimoni
Oggi si parte da una eroina giudaica (che più che sposa fu concubina del re persiano Serse I), passiamo poi a San Teodorico che propose alla moglie di vivere castamente, ma non essendo riuscito a convincerla, l’abbandonò (certo con la nostra mentalità di oggi non è che sia stato un grande sposo!) e infine Santa Regina (di nome, in effetti era solo contessa).
Etimologia: Ester = stella, dal persiano
L'eroina giudaica, che ha dato il nome ad uno dei libri sacri, "di belle forme e di aspetto avvenente", alla morte dei genitori fu adottata dal cugino Mardocheo (Esth. 2, 7); erano entrambi della tribù di Beniamino e del casato di Cis. La loro famiglia fu tra quelle deportate nel 597. Mardocheo era nato in esilio, e il suo nome derivava da quello del dio Marduk; egli ebbe cura di Ester come della pupilla dei suoi occhi. Il re Serse I (Assuero: 485-465 a. C.), ripudiata Vasti, scelse Ester a sua donna favorita. Allorché Aman, il potente ministro, ottenne il decreto per l'uccisione dei Giudei, Mardocheo, che aveva sempre vegliato su Ester, la esortò a presentarsi al re e a intercedere in favore dei suoi connazionali. Ella, sebbene fosse proibito, sotto pena di morte, di accedere al re senza essere chiamati, si presentò a porgergli la sua supplica, dopo aver pregato e digiunato, invitandolo a pranzo. Accolta benevolmente, fu esaudita, quando, dopo il banchetto, svelò al re la malvagità di Aman. Ester salvò così il suo popolo. Mardocheo, a ricordo del lieto evento istituì la festa dei Purim che veniva celebrata il 14 e 15 del mese di adhar. Gli antichi martirologi latini celebrano la festa di Ester al 1 o luglio: festum Hester reginae; il Canisio aggiunge, in tedesco, il seguente breve elogio: "Bella e fedele, che trasse e liberò, con l'aiuto di Mardocheo, da un irnmediato pericolo tutto il popolo giudaico".
I Copti pongono la festa di Ester, "regina dei Persiani", al 20 dicembre, senza fare menzione di Mardocheo. Tra i Greci, sia Ester sia Mardocheo appaiono nominati nella commemorazione generale di tutti gli antichi Padri del Vecchio Testamento. Il distico che si riferisce ad Ester suona così: "Commemorazione della giusta [o "santa"] Ester, che redense [liberò] dalla morte il popolo d'Israele".
Autore: Francesco Spadafora Fonte: Enciclopedia dei Santi
Etimologia: Teodorico = che sta a capo del popolo, dall'anglosassone
Emblema: Bastone pastorale
Martirologio Romano: Presso Reims nel territorio della Neustria, in Francia, san Teodorico, sacerdote, discepolo del vescovo san Remigio.
Secondo antichi scritti e di incerto valore, Teodorico nacque nella regione della Mrna, ove il padre Marcardo viveva di brigantaggio e furti.
Quando si sposò propose alla moglie di vivere castamente, ma non essendo riuscito a convincerla, l’abbandonò. A noi viventi in quest’epoca moderna, ci sembra tutta un’assurdità, ma nell’Alto Medioevo non è raro trovare queste coppie che di comune accordo decidano di vivere castamente il loro matrimonio, inteso allora anche come un vincolo di fede reciproco; e lungo i secoli troviamo coppie che raggiungono il martirio insieme, oppure diventano santi mettendo in pratica un separazione che contemplava la scelta di un monastero per ognuno.
Teodorico si recò presso il vescovo s. Remigio che gli suggerì di vivere in solitudine nei dintorni di Reims a Mont Or, oggi Mont d’Or.
S. Remigio lo ordinò sacerdote; attorno a lui si riunirono numerosi discepoli, compreso il padre Marcardo, pentitosi delle sue infamie.
Il re d’Austrasia, Teodorico I, gravemente ammalato ad un occhio, si recò a trovare il pio abate per le cui preghiere ottenne la guarigione, si dice anche che Teodorico risuscitò anche la figlia del re il quale dimostrò la sua gratitudine con grandi elemosine al monastero.
Il santo abate fondatore, morì il 1° luglio 533, fu sepolto nella chiesa di Mont Or sulla cui tomba avvennero molti miracoli.
L’Abbazia fu distrutta dagli Ungari; nel 933 fu restaurata dal vescovo di Reims, nel sec. XIII fu edificata una grande chiesa.
Dopo molte vicissitudini, nei secoli, legate al destino del monastero, nel 1776, le reliquie sistemate in una cassa d’argento dorato, furono trasferite nella chiesa parrocchiale.
Nel Martirologio Romano è precisato che Teodorico era discepolo di s. Remigio.
Autore: Antonio Borrelli
VIII secolo
Rimasta vedova del conte Beato Adalberto di Hainaut, fondò il monastero di Denain, del quale in seguito fu badessa la figlia Santa Renfrida.
Ultimamente pare rincontrare nuovamente fortuna il nome “Regina”, che ispira indubbiamente sentimenti regali, pur senza incorrere in fraintendimenti politici od istituzionali. Regina, infatti, è uno tra i più bei titoli maggiormente attribuiti alla Madonna, che veneriamo come Regina degli Angeli, dei Patriarchi, dei Profeti, degli Apostoli, dei Martiri, dei Confessori della fede, delle Vergini, di tutti i Santi, del Rosario, della famiglia, della pace e del Cielo.
Questo dunque è uno di quei nomi sorti come titoli devozionali verso la Vergine Santissima.
Ciò non toglie, però, che vi siano due sante che portano questo nome, nelle cui ricorrenze è possibile festeggiare l’onomastico, mentre assai più numerose sono le sante “regine” di fatto.
La santa Regina venerata in data 1° luglio, vissuta in Francia nell’VIII secolo e discendente di un’importante famiglia dell’Hainaut, fu in realtà una contessa, poiché andò in sposa al conte Adalberto. Da questo felice matrimonio nacque una figlia, chiamata Renfrida, o Reginfreda.
Rimasta vedova ancora giovane, Regina intraprese la fondazione di un nuovo monastero a Denain, nei pressi di Valenciennes, città celebre per i suoi pizzi. Qui la contessa assunse il velo come benedettina ed assumendo come obiettivo la propria santificazione per mezzo della preghiera e del lavoro.
Ma colei che Regina aveva generato nella carne, cioè la figlia Renfrida, divenne ben presto sua madre spirituale, assumendo la carica di badessa del nuovo monastero. La santa genitrice le si sottomise volentieri, dando così origine ad un capovolgimento di posizioni assolutamente impossibile sul piano umano, ma non spiritualmente.
La badessa Renfrida fu anch’ella venerata come santa alla sua morte ed è dunque ricordata l’8 ottobre.
Di questa vicenda non si possono purtroppo soggiungere ulteriori dettagli, poiché esistono solo alcune leggende prive di alcun fondamento storico. Ma ciò che sappiamo, nonché l’antichità del culto conferitole, può bastare come conferma delle silenziose virtù di questa santa che portò il bel nome regale di Regina.
Autore: Fabio Arduino
Monegonda, santa di Tours del VI secolo, è conosciuta solo per una Vita molto concisa che costituisce il capitolo XIX della Vita dei Padri di Gregorio di Tours e un riassunto, molto suggestivo, che costituisce il capitolo 24 di In gloria dei Confessori. Ella fa parte di quel gruppo di personaggi che Gregorio dovette conoscere da vicino e dei quali egli narra la vita esemplare con scopi di edificazione nonché storici.
Monegonda a Chartres
Monegonda è originaria di Chartres. È sposata e madre di due figli che muoiono prematuramente. Inconsolabile nella società, ma timorosa che il suo dolore inconsolabile sia un’offesa a Dio, rifiuta i suoi abiti di lutto e si fa costruire una celletta nella quale si ritira in preghiera e digiuno. Il suo solo nutrimento è costituito da un pane d’orzo e da una miscela di ceneri che essa stessa brucia.
Un miracolo certifica rapidamente questo cambiamento. La serva (presso Gregorio di Tours tutti i santi di buon lignaggio, anche se rinunciano a tutto, conservano almeno uno schiavo o un servitore) la abbandona, stanca delle sue privazioni. Sprovvista d’acqua per impastare il suo pane, Monegonda si affida a Dio e, a seguito delle sue preghiere, si mette a nevicare ed ella può raccogliere la neve sul davanzale.
Ma è un altro miracolo che deciderà del suo destino. Mentre passeggia nel giardino che si trova accanto alla celletta, una vicina, che mentre metteva del frumento ad essiccare sul tetto della casa la guardava con curiosità indiscreta, divenne improvvisamente cieca. Monegonda è disperata: “Povera me, se per una piccola offesa fatta alla mia nullità, le persone vengono accecate!” Si mette a pregare e poi, toccando la donna e facendo il segno della croce, le rende la vista.
L’evento fa scalpore. Ella si chiude nella sua abitazione rifiutandosi di intercedere per un sordo che le hanno portato e che viene comunque guarito. Osannata dai suoi vicini, timorosa di soccombere alla vanità, abbandona casa, marito e famiglia e si porta a Tours, presso la tomba di San Martino.
Il miracolo di Avoine
Lungo la via si ferma ad Avoine (lat. Evena), dove è in corso la celebrazione della vigilia di San Medardo, del quale la chiesa possiede reliquie. Dopo una notte di preghiere, l’indomani nel corso della messa, vede avvicinarsi una ragazza, “gonfia a causa del veleno emesso da una pustola maligna” che si butta ai suoi piedi dicendole “Aiutami, perché una morte crudele cerca di strapparmi dalla vita”. Come sua abitudine, Monegonda si prosterna, supplica Dio, poi, alzandosi, fa un segno di croce. “Di seguito il tumore si apre in quattro, il pus cola fuori e la morte abbandona quella ragazza.”
Giova qui rimarcare la precisione quasi chirurgica con la quale Gregorio ci narra la guarigione.
Monegonda a Tours
Arrivata a Tours, rende grazie a Dio per aver potuto contemplare coi suoi occhi il sepolcro di San Martino, poi si installa lì vicino “in una celletta” per digiunare e pregare. Le guarigioni riprendono: la figlia di “una certa vedova” (sicuramente una persona famosa) è guarita dalla contrattura delle mani (un male molto citato nella letteratura agiografica dell’alto Medioevo).
Qui si verifica un fatto: il marito, avendo sentito parlare della reputazione della sua sposa, raduna amici e vicini per riportarla di forza a Chartres. Ella ritrova quindi la sua prima cella, e moltiplica digiuni e preghiere (sue armi preferite), poi, sentendosi pronta e implorato il soccorso di san Martino, riprende la strada di Tours. Il marito non insisterà più (evidentemente un miracolo da accreditare a san Martino). Si ha soprattutto l’impressione che Gregorio tenda a giustificare Monegonda, facendo appello al più incontestabile dei santi, del fatto che ella abbia completamente abbandonato marito e famiglia.
Monegonda si va circondando di un piccolo gruppo di donne che conduce, all’ombra della tomba di san Martino, un genere di vita monacale del quale Gregorio ci descrive qualche tratto: preghiera e accoglienza dei malati, nutrimento limitato al pane d’orzo, del vino misto all’acqua nei giorni di festa, stuoie di canne per letto…
I miracoli si susseguono: una ragazza coperta di piaghe che erano state “prodotte, come si dice talvolta, per fare [spurgare] il pus” guarisce quando Monegonda spalma le sue piaghe con la saliva; un giovane uomo, che soffre dei morsi di serpenti velenosi generatisi nel suo corpo dopo aver ingerito una bevanda “malefica”, può esserne liberato dopo che Monegonda gli avrà tastato lo stomaco per localizzare i rettili, posto una foglia di vite spalmata di saliva sul posto giusto e fatto il segno della croce; una cieca è guarita dalla cataratta mediante l’imposizione delle mani…
Quando Monegonda è sul punto di morire, le sue compagne la supplicano di benedire dell’olio e del sale che esse potranno dare ai malati che verranno a chiedere soccorso. Viene sepolta nella sua stessa celletta. Gregorio riporta tutta una serie di guarigioni ottenute sulla sua tomba con l’aiuto dell’olio e del sale miracolosi.
Monegonda e l’agiografia
Dal punto di vista della tipologia merovingia dei santi, Monegonda si inquadra (al femminile) nel modello dei santi intercessori. Tutti i suoi miracoli prevedono che prima di tutto ella preghi e implori Dio per colui che vuole beneficiare. Ed è questa vita esemplare, totalmente centrata sulla preghiera e l’astinenza, che dà efficacia alla sua intercessione. Dio e san Martino (non scordiamo che siamo a Tours), in considerazione dei suoi meriti, esaudiscono la preghiera che ella fa loro a vantaggio di terzi.
Senza appartenere all’aristocrazia, fatto che Gregorio non ha mancato di sottolineare, Monegonda viene da una famiglia agiata. “Chiamata” alla santità dopo un dramma personale, ella risponde con una vera conversione (sottolineata nel testo da tutta una serie di riferimenti scritturali la cui successione ha valore di analisi psicologica e un miracolo che ne costituisce, per così dire, il sigillo teologico). La conversione implica idealmente da una parte la rinuncia agli agi della vita mondana, dall’altra la rottura con la sua famiglia “naturale” a vantaggio di quella famiglia spirituale che è la Chiesa. Monegonda adempie alla prima condizione imponendosi l’austerità e l’umiltà (si abbassa perfino a lavorare con le sue mani almeno per impastare il pane), ma senza mai raggiungere gli eccessi della mortificazione. La seconda si rivela più problematica poiché, in un mondo dove, a meno di appartenere agli strati più alti dell’aristocrazia, la donna non gode che di una libertà limitata, ella necessita del sostegno speciale di san Martino per conseguire i suoi fini.
I miracoli di Monegonda, senza essere granché originali, si inscrivono in un sistema taumaturgico assai caratteristico del “pellegrinaggio di Tours”. Si possono comparare, ad esempio, con quelli compiuti dal taifalo [popolo simile ai tartari] Senoch, dalla personalità tuttavia assai diversa. Essi si produssero dopo la sua morte. Nell’agiografia merovingia, più che in ogni altra epoca, sono i miracoli post mortem che autenticano la santità del defunto. Ma a tours essi partecipano anche all’attività del pellegrinaggio martiniano, dove ogni santa tomba diventa una specie di collegamento della tomba centrale di san Martino.
Un miracolo curioso illustra questa complementarietà dei santi. Un cieco, pregando sulla tomba della santa, si addormenta. Ella gli appare in sogno e gli dice: “Mi reputo indegna di essere paragonata ai santi; tuttavia recupererai qui la vista da un occhio; corri poi ai piedi del beato Martino e prosternati davanti a lui con l’anima compunta. Egli ti renderà l’uso dell’altro occhio”. Le cose evidentemente funzionavano così. Monegonda testimonia nello stesso tempo della sua santità personale (anche se per umiltà si defila) e della sua posizione, tutto considerato subordinata, nella familia martiniana.
Monegonda nella storia
Monegonda dev’essere arrivata a Tours poco dopo il 561 (la presenza delle reliquie di san Medardo ad Avoine ci danno un termine post quem) in un’epoca in cui il vescovo Eufronio pareva aver vigorosamente rilanciato il pellegrinaggio martiniano e attirato nella sua città un buon numero di vocazioni religiose.
È a Luce Pietri, nella sua tesi su Tours, che va il merito di aver saputo precisare la figura storica della santa.
L’accoglienza dei malati e di ogni sorta di diseredati attirati dal più importante dei santuari taumaturgici della Gallia, ha certamente posto numerosi problemi alla chiesa di Tours. Si sa che Eufronio, e dopo di lui Gregorio, si sono attivamente preoccupati della registrazione dei poveri.
Che ne era dei malati e degli infermi? Luce Piatri non ha potuto trovare tracce esplicite a Tours di un edificio destinato ad accoglierli, uno xenodochio come ne esistevano in altre città. Questo ruolo sembra essere stato lì assicurato dai monasteri che, come quello istituito da Monegonda, quello più antico di san Venanzio, o quello quasi contemporaneo di san Senoch un po’ distante dalla città, sorgevano attorno alla basilica di san Martino.
Nell’opinione di Gregorio, ogni guarigione - ritorno all’ordine perturbato dal male o dal peccato - è più o meno un miracolo. La stilizzazione agiografica è dunque per natura ingannevole, poiché mette in vista il miracolo “istantaneo” e spettacolare a detrimento delle cure ripetute che avrebbero tuttavia dovuto essere la regola in queste istituzioni.
L’atmosfera satura della virtus martiniana, la messa in scena dell’intercessione, la preghiera e la gestualità che l’accompagna, hanno di certo dovuto avere la loro efficacia psicosomatica. Ma c’è anche in questi monasteri una reale tecnicità.
Quando Monegonda pratica la palpazione, quando usa compresse di saliva o di olio benedetto, massaggia le mani contratte, si tratta certamente di una attività medicale. Fra i miracoli post mortem che narra Gregorio, quello del cieco guarito a metà sopra citato lascia pensare che altre tecniche, ereditate dall’antichità, come l’incubatio nel santuario, avessero luogo nel ambito [delle chiese] di Tours.
Bisogna dunque vedere Monegonda come una donna pia che, in risposta all’appello del vescovo Eufronio, viene a Tours per fondare e dirigere in maniera esemplare uno di questi monasteri / ospedali indispensabili al buon funzionamento del pellegrinaggio. Tale funzione caritativa la integra nel dispositivo ecclesiastico e ne fa, in morte più ancora che in vita, un membro eminente della famiglia martiniana.
È interessante notare anche - fatto utile per una sociologia della santità - che, secondo Gregorio, la famiglia si glorifica dei miracoli di Monegonda ed è questa reputazione crescente che spinge suo marito a volerla recuperare. Pensava forse la famiglia di approfittare essa stesse del suo dono di guarigione? Un’altra domanda sorge appresso. Ha appreso Monegonda nella stessa Tours l’insieme delle sue tecniche di guarigione o ha portato ella alla chiesa di Eufronio un sapere acquisito nella vita laica? Il miracolo molto “professionale” della chiesa di Avoine ci obbliga a porre la domanda. Purtroppo non abbiamo modo di rispondere.
Il culto di Monegonda
Si concorda in genere che Monegonda sia morta prima del 573, poiché nulla indica nel testo che Gregorio l’abbia conosciuta personalmente, almeno non nelle sue funzioni episcopali; ma l’argomento non è necessariamente decisivo.
Comunque sia, oscuramente e senza dubbio modestamente, la sua fondazione è sopravvissuta ben a lungo dopo la fine del suo olio benedetto: appare citata per l’ultima volta nel 1031 in un diploma di Roberto il Pio. In data sconosciuta il suo corpo è stato trasferito al monastero di Saint-Pierre-le-Puellier ove è rimasto sino alla profanazione della tomba fatta dai protestanti nel 1562.
(NOTA: secondo J. Vieillard-Troiekouroff, passim, che si basa su una nota di dom Ruinart nella sua edizione di Gregorio di Tours (1699), le reliquie di Monegonda che le religiose avevano avuto tempo di nascondere, erano nuovamente venerate nel monastero nel 1657).
Immediatamente dopo la morte, la sua tomba, divenuta martyrium, è ricoperta da una palla, alla quale Gregorio fa allusione, probabilmente circondata da un cancello, e naturalmente accessibile ai fedeli. È probabile che Gregorio stesso abbia istituito delle veglie in suo onore. In ogni caso, il suo nome appare alla data del 2 luglio nelle aggiunte gallicane al martirologio gerolamino e questa data non può essere che di origine tourense. Va notato che il martirologio romano le accorda (per merito certamente di Gregorio) l’attributo di confessore, molto raro per una donna.
Nella sua diocesi d’origine, è menzionata, e niente di più, nella liturgia di Chartres, ma la chiesa parrocchiale di Orphin, ora nel dipartimento degli Yvelines, le è dedicata.
Autore: Traduzione a cura di Enrico Filaferro
† Tolosa, 3 luglio 1118
Nel giorno della festa dell'apostolo Tommaso la Chiesa ricorda oggi anche il «dies natalis» del francese Raymond Gayrard, vissuto tra XI e XII secolo. Nato a Tolosa, si sposò e rimase vedovo. Divenne allora canonico della basilica di Saint Sernin (Saturnino), dedicata al primo vescovo della diocesi e martire. Per le sue competenze in architettura Raymond assunse la direzione dei lavori di ricostruzione dell'antico complesso, partiti all'inizio dell'XI secolo sotto il vescovo Ruggero. Vi si spese fino alla morte, avvenuta nel 1118. (Avvenire)
Martirologio Romano: A Tolosa sulla Garonna in Francia, san Raimondo Gayrard, che, maestro di scuola, rimasto vedovo, si diede con passione alle opere di carità, fondò un ospizio e fu, infine, ammesso tra i canonici della basilica di San Saturnino.
Dal Medioevo francese, giunge fino a noi una nobile figura di laico “prestato” alla Chiesa del suo tempo. Raymond Gayrard nacque a Tolosa in Francia verso la metà del secolo XI, e le notizie su di lui che ci sono pervenute, sono narrate in una ‘Vita’ scritta nel XIII secolo, sulla base di documenti più antichi; quindi relativamente vicina agli anni della sua esistenza.
Seguendo una consuetudine dell’epoca, Raymond fu messo al servizio della chiesa di St-Sernin (s. Saturnino) dedicata al primo vescovo di Tolosa (29 novembre), divenendone un cantore pure rimanendo laico.
Si sposò, ma la moglie morì poco dopo le nozze; Raymond addoloratissimo, rinunziò a risposarsi e decise di dedicarsi al servizio del prossimo.
Distribuì generose elemosine ai poveri della città e fondò un asilo per dodici bisognosi; vero soccorritore dei suoi concittadini, fece costruire due ponti sull’Hers, le cui frequenti piene erano di ostacolo al passaggio di uomini e merci.
Ma l’opera più importante, resta la sua partecipazione nella ricostruzione della chiesa di St-Sernin; l’antico complesso era stato iniziato a ricostruire sin dall’inizio dell’XI secolo, sotto il vescovo Ruggero.
Il coro era stato consacrato da papa Urbano II il 24 maggio 1096, ma bisognava ancora costruire il transetto, una gran parte della navata centrale e le navate laterali.
Per le sue competenze in architettura, Raymond Gayrard assunse la direzione del cantiere, dando grande impulso ai lavori; la lunga costruzione, alla quale consacrava ogni sua attività, ebbe grande ripercussione sulla vita spirituale di Raymond, il quale per legarsi ancor di più a questo tempio, chiese di essere accolto tra i canonici di St-Sermin, i quali in seguito lo elessero come prevosto del capitolo.
Purtroppo non poté vedere completata la lunga e laboriosa opera, infatti Raymond Gayrard morì il 3 luglio 1118 e fu sepolto nell’Asilo che aveva fondato.
Sulla sua tomba avvennero ben presto numerosi miracoli, per cui divenne oggetto di un culto locale; in occasione di un’epidemia che aveva fatto affluire alla sua tomba un gran numero di malati, nel 1652 papa Innocenzo III ne confermò ufficialmente il culto.
Il Martirologio Romano porta la sua festa liturgica il 3 luglio; i Canonici Regolari Lateranensi lo ricordano nell’Ordine l’8 luglio.
Autore: Antonio Borrelli
Iniziamo oggi con una regina che fu realmente una grande santa, tra le altre cose fondò il primo santuario ove si venerava la Immacolata Concezione...
Saragozza, Spagna, 1271 - Estremoz, Portogallo, 4 luglio 1336
Nacque a Saragozza, in Aragona (Spagna), nel 1271. Figlia del re di Spagna Pietro III, quindi pronipote di Federico II, a soli 12 anni venne data in sposa a Dionigi, re del Portogallo, da cui ebbe due figli. Fu un matrimonio travagliato dalle infedeltà del marito ma in esso Elisabetta seppe dare la testimonianza cristiana che la portò alla santità. Svolse opera pacificatrice in famiglia e, come consigliera del marito, riuscì a smorzare le tensioni tra Aragona, Portogallo e Spagna. Alla morte del marito donò i suoi averi ai poveri e ai monasteri, diventando terziaria francescana. Dopo un pellegrinaggio al santuario di Compostela, in cui depose la propria corona, si ritirò nel convento delle clarisse di Coimbra, da lei stessa fondato. Dopo la morte avvenuta nel 1336 ad Estremoz in Portogallo, il suo corpo fu riportato al monastero di Coimbra. Nel 1612 lo si troverà incorrotto, durante un'esumazione, collegata al processo canonico per proclamarla santa. Fu canonizzata a Roma da Urbano VIII nel 1625. (Avvenire)
Etimologia: Elisabetta = Dio è il mio giuramento, dall'ebraico
Martirologio Romano: Santa Elisabetta, che, regina del Portogallo, fu esemplare nell’opera di pacificazione tra i re e nella carità verso i poveri; rimasta vedova del re Dionigi, abbracciò la regola tra le monache del Terz’Ordine di Santa Chiara nel cenobio di Estremoz in Portogallo da lei stessa fondato, nel quale, mentre era intenta a far riconciliare suo figlio con il genero, fece poi ritorno al Signore.
Elisabetta nacque a Saragozza (Spagna) nel 1271 da Pietro III d'Aragona, e da Costanza, figlia di Manfredi, successo al padre, l'imperatore Federico II, nel regno di Sicilia. Al fonte battesimale le fu imposto il nome della santa prozia, regina d'Ungheria. Dopo la sua nascita si riconciliarono tra loro il padre e il nonno, Giacomo I il Conquistatore che, fino alla morte (1276), volle prendersi cura della educazione di lei. A otto anni, Elisabetta aveva già imparato a recitare ogni giorno l'ufficio divino, a soccorrere i poveri e a praticare rigorosi digiuni. La sua infanzia fu di corta durata perché, a dodici anni fu data in sposa a Dionisio il Liberale, re di Portogallo, fondatore dell'università di Coimbra e dell'ordine del Cristo.
Alla corte della casa reale di Portogallo, Elisabetta non tralasciò le buone abitudini prese pur non trascurando i nuovi doveri di regina e di sposa. Continuò a levarsi di buon mattino per andare in cappella ad ascoltare la Messa in ginocchio, fare sovente la comunione, e dire l'ufficio della SS. Vergine e dei morti. Dopo pranzo ritornava in cappella per terminare l'ufficio divino, fare letture spirituali e abbandonarsi a svariate orazioni tra un profluvio di lacrime. Il tempo libero lo impegnava a confezionare suppellettili per le chiese povere, con l'aiuto delle dame di corte. A queste buone opere altre ne aggiunse di mano in mano che veniva a conoscenza delle pubbliche necessità. Non ci furono difatti chiese, ospedali o monasteri alla cui costruzione ella non contribuisse con regale generosità. Alcuni ne fece costruire, ella stessa, a Santarém e a Coimbra.
La sua ultima fondazione fu una cappella in onore della SS. Vergine nel convento della Trinità, a Lisbona. Essa fu il primo santuario in cui si sia venerata l'Immacolata Concezione. Prima di morire volle pure istituire una confraternita intitolata alla SS. Trinità.
Perché il suo spirito fosse sempre pronto alla contemplazione, Elisabetta digiunava abitualmente tre volte alla settimana, tutta la quaresima, tutto l'avvento e dalla festa di S. Giovanni Battista all'Assunta. I venerdì e i sabati che precedevano le feste della SS. Vergine si cibava soltanto di pane e acqua. Nella sua sete di penitenza, ella si sarebbe data ad altre austerità, se il marito glielo avesse permesso. I medici le ordinarono, per un certo tempo almeno, di abbandonare le mortificazione di gola, ma ella continuò a bere dell'acqua. Un giorno però Iddio intervenne a favore dei discepoli di Esculapio, mutando in vino una brocca d'acqua che le era stata portata.
Anche la carità di Elisabetta per i poveri e i nobili decaduti fu incomparabile. Al suo elemosiniere aveva dato ordine di non mandare mai via nessun bisognoso a mani vuote. Ella fece inviare dei viveri a monasteri poveri e a regioni colpite dalle avversità; protesse gli orfani; soccorse le giovani pericolanti; tutti i venerdì di quaresima, dopo aver lavato e baciato i piedi a tredici poveri, li faceva vestire di abiti nuovi; il giovedì santo compiva la medesima opera buona a favore di tredici donne. A contatto delle sue mani e delle sue labbra, una malata guarì da una piaga al piede e uno storpio lebbroso, da entrambe le infermità.
Nel 1290 Elisabetta diede alla luce una figlia, Costanza, che in seguito fu maritata a Ferdinando IV di Castiglia. L'anno dopo partorì l'erede al trono, Alfonso IV il Valoroso. Per la sua famiglia Elisabetta fu un vero angelo tutelare. Ella non si accontentò di dare dei buoni consigli ai figli, ma esortò anche il marito a governare i sudditi con giustizia e mitezza senza dare ascolto ai vani discorsi degli adulatori o ai falsi rapporti degli invidiosi. Tuttavia, dopo qualche anno passato nella concordia e nella più dolce intimità con lui, Dio permise che cominciasse, per Elisabetta, un vero calvario a causa degli illeciti amori ai quali il re, a poco a poco, si abbandonò. Elisabetta se ne afflisse più per l'offesa fatta a Dio che per l'affronto fatto a lei. Con dolcezza cercò di ricondurlo sul retto cammino e, senza uscire in amari lamenti, spinse il suo eroismo fino a curare l'educazione dei figli naturali di lui come se fossero propri. La nobiltà, temendo che i bastardi del re acquistassero troppo ascendente nel paese, eccitarono alla rivolta il figlio ereditario. Alfonso prese difatti le armi contro il padre, con immenso dolore di Elisabetta, la quale si schierò dalla parte del sovrano e cercò ripetutamente di rappacificare i due avversari. Siccome erano sordi alle sue esortazioni, ella moltiplicò le preghiere, i digiuni e anche le lettere di rimprovero al figlio.
Ciononostante cortigiani mal intenzionati giunsero a far credere al re che la sua consorte aiutava segretamente il figlio ribelle. La calunnia fu creduta dal sovrano, il quale privò Elisabetta della signoria di Leiria, che le apparteneva e la confinò nella fortezza di Alemquer. Parecchi grandi del regno andarono ad offrirle i loro servigi, ma la Santa preferì affidarsi alle mani della divina Provvidenza anziché permettere di venire reintegrata nei suoi diritti con le armi. Il re riconobbe al fine il suo torto, richiamò Elisabetta e le diede in appannaggio la città di Torres-Vedras.
La regina continuò ad adoperarsi affinché nella sua famiglia ritornasse la pace. Al tempo dell'assedio di Coimbra (1319), da parte di suo figlio, la madre si portò a cavallo in mezzo ai soldati delle opposte fazioni, con un crocifisso in mano, e riuscì a riconciliare padre e figlio. La guerra ricominciò più violenta poco tempo dopo a Lisbona. Elisabetta, che preferiva la pace a tutto l'oro del mondo, montò sopra una mula e si slanciò tra i due eserciti per scongiurarli, con le parole e con le lacrime, a scendere a patti. In quelle circostanze la Santa riuscì a pacificare per sempre i due contendenti.
Elisabetta aveva iniziato il suo compito di pacificatrice in occasione delle contese sorte tra suo marito e suo cognato, il turbolento Alfonso di Portalegre, a motivo di qualche possedimento. La santa aveva evitato che venissero alle mani cedendo a Dionisio parte delle sue rendite, per risarcirlo delle terre che era stato costretto a cedere al fratello. Anche presso il rè di Spagna l'intrepida regina svolse opera di pace affinché potessero fare blocco nella lotta contro i mori. Impedì difatti una guerra tra suo marito e il genero, Ferdinando IV di Castiglia.
Dionisio, alla preghiera della sposa, si convertì e passò accanto a lei gli ultimi anni di vita. Al tempo dei suoi disordini, la regina si serviva di un paggio di fiducia per far giungere le elemosine ai bisognosi. Un paggio del re, geloso di quella preferenza, decise di perderlo, accusandolo al sovrano di illecite relazioni con la regina. Dionisio gli prestò fede, se ne adombrò e decise segretamente di far morire il favorito. Un giorno, uscito a cavallo, s'imbatté in una fornace di calce. Si avvicinò agli operai e diede ad essi l'ordine di gettare subito nel fuoco il paggio che si sarebbe presentato a chiedere loro se fosse già stato eseguito il comando del sovrano. L'indomani vi mandò il paggio della regina, ma costui, passando davanti ad una chiesa, sentì suonare la campanella e vi entrò per ascoltare la Messa.
Dopo un po' di tempo il re, che smaniava di sapere che fine avesse fatto il paggio, chiamò il calunniatore e lo mandò a chiedere ai fochisti della fornace se il comando del re era stato eseguito. Gli operai, credendo che quello fosse il paggio di cui il re aveva parlato loro, lo presero e lo buttarono vivo nel fuoco. Poco dopo si presentò pure il paggio votato alla morte. Appena seppe che l'ordine del re era stato eseguito, ritornò a darne notizia a chi lo aveva mandato. Il re, constatato con stupore che la sua macchinazione, per disposizione divina, aveva avuto un esito diverso da quello che si era proposto, cominciò da allora a rinsavire.
Dopo la morte del marito (1325), Elisabetta rinunciò al mondo, si tagliò i capelli, vestì l'abito del terz'ordine Francescano e andò pellegrina a San Giacomo de Compostela. In suffragio del re defunto, offrì al santuario la corona d'oro che aveva portato il giorno del matrimonio, con altri ricchissimi doni. Il vescovo della città le diede in cambio un bastone di pellegrino e una borsa che la santa volle portare con sé nella tomba. Appena rientrò a corte fece fondere le sue argenterie a favore delle chiese, divise i diademi e le altre insegne regali tra la sovrana Beatrice e le sue nipoti e, a Coimbra, fece terminare la costruzione del monastero di Santa Chiara. In esso intendeva terminare la vita, ma ne fu distolta da savi sacerdoti, per ragioni di stato e per non privare tanti poveretti dei suoi aiuti. Elisabetta si accontentò di portare sempre l'abito della penitenza e di fare costruire presso il monastero un appartamento che le consentisse, con il permesso della Santa Sede, di ritirarvisi sovente a pregare, a conversare e a pranzare con le religiose. Abitualmente ne teneva cinque con sé per la recita corale dell'ufficio e la vita in comune.
Nel pomeriggio Elisabetta dava udienza con una pazienza e una bontà illimitata, ai poveri, ai malati, ai peccatori che ricorrevano a lei. Per tutti aveva una parola di consolazione, un'abbondante elemosina. Nel 1333 gli abitanti di Coimbra furono ridotti, dalla carestia, a cibarsi di sorci. Elisabetta, senza prestare ascolto agli amministratori dei suoi beni che le raccomandavano la parsimonia, fece comperare per loro grandi quantità di cibarie e provvide persino che fossero seppelliti i morti, abbandonati nelle case per la grande desolazione. Quando era libera dalle opere di carità e nella notte, ella si ritirava in una stanzetta segreta. Lontana dagli sguardi indiscreti dava libero sfogo alle sue preghiere e alle sue contemplazioni. Altre volte andava a visitare i degenti nell'ospedale che aveva fatto costruire in onore di S. Elisabetta d'Ungheria e a curarli con le sue stesse mani.
L'ultimo anno di vita Elisabetta pellegrinò, una seconda volta, a San Giacomo de Compostela, con due donne. Volle fare a piedi il lungo viaggio nonostante i suoi 64 anni e mendicare di porta in porta il vitto quotidiano.
Al ritorno le fu annunziato che suo figlio, Alfonso re del Portogallo, e suo nipote Alfonso, re di Castiglia, si erano dichiarati guerra. Elisabetta si portò a Estremoz nella speranza di strappare parole di pace dalla bocca del figlio da portare al nipote in Castiglia, ma una violenta febbre non le lasciò nessuna speranza di vita. Si mise a letto, fece testamento alla presenza del figlio e della nuora, e ricevette il Viatico tra sospiri e lacrime, rivestita del suo abito di penitenza, inginocchiata, nonostante l'estrema debolezza, davanti all'altare eretto nel suo appartamento. Alla regina Bianca, che l'assisteva e che era stata la compagna delle sue visite ai poveri e ai malati, ella chiese che avvicinasse al suo letto una sedia per Maria SS. la quale le era apparsa radiosa, vestita di bianco, in compagnia di S. Chiara e di altre sante. Morì il 4-7-1336 dopo aver recitato il Credo e mormorato: Maria, mater gratiae.
Il corpo di Elisabetta fu trasportato a Coimbra e seppellito nella chiesa delle Clarisse dove si è conservato incorrotto. Urbano VIII la canonizzò il 24-6-1626.
Autore: Guido Pettinati
Francia, 640 ca. – Blangy, Artois (Francia), 725
Figlia di Rigoberto, conte palatino sotto il re carolingio Clodoveo II, sposò ventenne un parente di questi, Sigfrido. Vent'anni dopo, rimasta vedova, seguì la vocazione monastica. Costruì due case di preghiera, ma entrambe crollarono. Un angelo, allora, le apparve e le indicò un luogo adatto, dove sorse il monastero di Blangy, nell'Artois. Vi si stabilì con le due figlie maggiori, Deotila e Gertrude. Alcuni anni prima della morte, avvenuta intorno al 725, lasciò l'incarico di badessa e si ritirò a vita anacoretica in una celletta nelle vicinanze del monastero. (Avvenire)
Martirologio Romano: A Blangy nel territorio di Arras in Francia, santa Berta, badessa, che, entrata insieme alle figlie Geltrude e Deotila nel monastero da lei fondato, dopo alcuni anni si ritirò come reclusa in una cella.
Sembra un destino già stabilito, ma tutte le sei sante o beate di nome Berta, destinatarie di un culto ufficiale, vissero buona parte della loro vita e fino alla loro morte, come badesse di monasteri e quasi tutte nel XII secolo.
La santa Berta di cui parliamo, nacque invece in Francia nel 640 ca. da Rigoberto, conte palatino sotto il regno carolingio di Clodoveo II (638-656) e da Ursona; a vent’anni sposò un parente del re di nome Sigfrido, dal matrimonio nacquero cinque figlie.
Vent’anni dopo nel 680, rimasta vedova, poté a 40 anni seguire la sua personale vocazione monastica, a cui aveva dovuto rinunciare per i soliti motivi di Stato.
Si narra che costruì ben due case di preghiera, ma entrambe crollarono dopo un po’ di tempo, a questo punto le apparve un angelo che indicò il luogo adatto per la costruzione e qui sorse nel 686 il monastero di Blangy nell’Artois (regione storica della Francia, compresa nel dipartimento del Pas-de Calais).
In questo monastero si ritirò insieme alle due figlie maggiori Deotila e Gertrude; ricoprendo la carica di badessa per alcuni anni, poi lasciò la carica per vivere come semplice reclusa in una piccola cella prospiciente la chiesa del monastero.
Visse così praticamente sepolta viva per molti anni in preghiera e penitenza; morì nel 725 a circa 85 anni. Le sue reliquie furono trasportate nell’825 ad Erstein presso Strasburgo, per salvarle dalle invasioni dei Normanni; poi nel 1032 furono riportate a Blangy, divenuto nel frattempo monastero benedettino.
Nella diocesi di Arras (capoluogo dell’Artois) la festa di s. Berta si celebra il 4 luglio, giorno riportato anche dal ‘Martirologio Romano’.
Autore: Antonio Borrelli
Oggi troviamo una sposa, Santa Marta, che aveva fatto voto di verginità e che poi, su suggerimento di San Giovanni Battista (che gli appariva spesso), si sposò ed ebbe un figlio che divenne anche lui santo! Ricordiamo poi una santa martire, Santa Ciprilla.
Martirologio Romano: Sul monte Mirabile in Siria, santa Marta, madre di san Simeone Stilita il Giovane.
Nata ad Antiochia all'inizio del sec. VI, Marta, benché avesse fatto voto di verginità, sposò Giovanni, originario di Edessa, per obbedire ai genitori ed in seguito ad una rivelazione di s. Giovanni Battista il quale le avrebbe annunciato anche il nome del figlio che sarebbe nato da lei.
Essendole morto il marito dopo qualche anno, ella si dedicò con zelo alla formazione cristiana del figlio Simeone, nato nel 520, che doveva poi divenire celebre per la sua vita e la sua attività sul Monte Ammirabile presso Antiochia.
Nel secolo successivo un autore, probabilmente un monaco del convento di S. Simeone, scrisse una Vita di Marta che supera, nell'immaginar meraviglie, la Vita stessa del figlio che apparirà più tardi. Lo scritto è ricco soprattutto di luoghi comuni sulle sue virtù, di continue apparizioni di s. Giovanni Battista e di angeli, oltre che di numerosi miracoli. L'autore fa compiere alla santa azioni inverosimili e tra l'altro la presenta recante una croce in testa alla processione, durante l'istallazione ufficiale del figlio sulla colonna.
Un angelo le annunciò con un anno di anticipo la data della sua morte ed ella ne informò Simeone e gli chiese di essere sepolta nel cimitero degli stranieri a Daphne, presso Antiochia. Morì il 5 lugl. 551 e per i funerali fu rispettata la sua volontà.
Avvertito della morte della madre, Simeone mandò a ricercare il corpo di lei e lo fece seppellire nell'abside della Chiesa della S.ma Trinità a destra della sua colonna. Ma Marta gli apparve per chiedergli di costruirle un sepolcro nella parte meridionale della chiesa, dove fu costruita una cappella nella quale fu trasferito il corpo con grande solennità e dove avvennero molti miracoli.
Autore: Raymond Janin Fonte:Enciclopedia dei Santi
Ciprilla era una cristiana di Cirene Santa Ciprilla di Cirene, città della Pentapoli, in Libia. Durante la persecuzione di Massimino, verso il 300, fu invitata a sacrificare agli idoli pagani. Poiché rifiutò, le furono messi in mano alcuni carboni ardenti e dell'incenso, nella speranza che, gettando tutto nel braciere per non scottarsi, avrebbe - almeno formalmente - consumato il sacrificio pagano. Ma la donna fu più forte. Chiuse il pugno, ustionandosi pur di non sacrificare. Fu solo l'inizio della tortura che la portò a morte, straziata con degli uncini. (Avvenire)
Martirologio Romano: A Cirene in Libia, santa Ciprilla, martire, che, come si racconta, durante la persecuzione dell’imperatore Diocleziano tenne a lungo nella mano dei carboni ardenti insieme a incenso, pur di non dare l’impressione, rimuovendo la brace, di voler compiere un’offerta di incenso agli dei; in seguito, crudelmente straziata, adorna del suo stesso sangue, migrò allo Sposo.
Sante CIPRILLA, AROA (RHOA) e LUCIA, martiri
I sinassari bizantini il 4 o il 5 luglio celebrano il martirio di Ciprilla, vedova di Cirene in Libia. Sotto Diocleziano e Massimiano ella si sarebbe recata dal vescovo Teodoro per essere guarita da un violento e cronico mal di capo. Teodoro, allora in libertà vigilata, la risanò trattenendola al suo servizio insieme con le altre pie donne Aroa e Lucia. Dopo il martirio del vescovo la santa vedova fu spinta all'abiura con vari tormenti: le si posero sulla mano carboni ardenti e incenso, supponendo che per sfuggire il dolore li avrebbe lasciati cadere davanti ai simulacri. Ma Ciprilla preferì perdere la mano e fu sospesa al legno. Dalle sue ferite sgorgò allora sangue e dal suo seno latte finché il martirio fu compiuto. Non tutti i particolari di questo racconto sembrano attendibili.
Sulle altre due donne, Aroa e Lucia, i sinassari non dicono nulla. Si conserva in greco una passio di Ciprilla, Aroa e Lucia, ancora inedita.
Il 5 luglio il Martirologio Romano del 1954 commemorava Cirilla, martire di Cirene. L'identità di tutti i particolari del racconto testimonia che si tratta, evidentemente, di una corruzione del nome della martire Ciprilla.
Autore: Joseph-Marie Sauget Fonte:Enciclopedia dei Santi
Santa Sexburga, sorella di tre sante, sorellastra di un'altra santa e madre di altre due sante!!!! E poi San Tranquillino di Roma, padre di altri due Santi, che poi divenne sacerdote!
+ 6 luglio 699 circa
Santa Sexburga, principessa dell’Anglia orientale, era figlia del re Anna, sorella delle sante Eteldreda, Etelburga e Vitburga, nonché sorellastra di Santa Setrida. Andò in sposa al re Erconberto del Kent, dal quale ebbe due figli e due figlie, le sante Ercongota ed Ermengilda. Non deve stupire il lettore contemporaneo il prolificare di cotanta santità presso una corte reale, fatto infatti assai comune in particolare nel primo millennio tanti in Oriente quanto in Occidente, addirittura in Etiopia, antica nazione cristiana d’Africa.
Sexburga fondò un monastero presso Minster-in-Sheppey, ove infine si ritirò una volta rimasta vedova nel 664, divenendone anche badessa. Attratta da una vita più solitaria ed isolata dal mondo, preferì poi trasferirsi nell’abbazia di Ely, lasciando il posto di badessa alla figlia Ermengilda. Qui nel 679 Sexburga succedette a sua sorella Ediltrude quale badessa e curò la sua sepoltura nella chiesa abbaziale, di cui ella stessa era stata fondatrice. Secondo la leggenda narrata da San Beda il Venerabile, nella zona paludosa circostante non riuscì a trovare una lapide adatta per la bara ed incaricò alcuni uomini a cercarne una, e questi rinvennero un’antica tomba romana di marmo bianco presso Grantchester.
Purtroppo non sono state tramandate notizie certe circa la sua attività di badessa e secondo la sua “Vita” redatta in lingua latina ella fu sorella di Ediltrude non tanto in quanto consanguinea, quanto più “per aver imitato le sue opere buone”. L’ex regina Sexburga morì il 6 luglio probabilmente dell’anno 699 e dal 1106 sino alla Riforma i suoi resti con quelli delle sante Ediltrude, Vitburga ed Ermengilda in apposite cappelle costruite nella chiesa abbaziale. Santa Sexburga compare in alcune scene tratte dalla vita di Eteldreda nella cattedrale di Ely, incise a rilievo. L’abbazia di Minster-in-Sheppey venne distrutta dai danesi e poi riedificata nel 1130 intitolandola alla Madonna ed a Santa Sexburga. Autore: Fabio Arduino
Emblema: Palma
Seguendo le descrizioni della ‘Passio Sebastiani’ cioè Vita di s. Sebastiano, l’agiografo Floro introdusse nel suo ‘Martirologio’ il nome del martire Tranquillino, fino allora sconosciuto nelle più antiche fonti agiografiche.
Da Floro il suo nome passò nel ‘Martirologio Romano’ al 6 luglio, in cui si legge che Tranquillino padre dei santi Marco e Marcelliano di Roma, fu convertito da s. Sebastiano, poi battezzato dal prete Policarpo e ordinato sacerdote dal papa s. Caio o Gaio (283-296); al tempo delle persecuzioni di Diocleziano, mentre pregava sulla tomba dell’apostolo Paolo, venne lapidato dai pagani; il suo corpo venne gettato poi nel Tevere.
Su tutto il racconto aleggia il sospetto della poca veridicità storica, come del resto per molti santi martiri dei primi tempi, di cui il martirio si tramandava per via tradizionale, mentre i racconti scritti comparivano secoli più tardi.
Il nome proviene dal latino “Tranquillus” che vuol dire ‘calmo, quieto’.
Autore: Antonio Borrelli
Bellissima figura di santo sposato, quasi emblematico per questo tipo di raccolta: è martire per la fede e per la difesa del matrimonio, il catechista Pietro To Rot, “marito devoto, padre amoroso e catechista impegnato”
Nuova Bretagna, 1912 - Vunaiara, luglio 1945
Emblema: Palma
Martirologio Romano: Nel villaggio di Rakunai nell’isola di Nuova Britannia in Melanesia, beato Pietro To Rot, martire, che, padre di famiglia e catechista, fu arrestato durante la seconda guerra mondiale, perché aveva perseverato nel suo ministero, e subì così il martirio con una iniezione di veleno letale.
Erano in molti a scommettere che sarebbe diventato un prete con i fiocchi; invece, non solo mette su famiglia, ma per difendere il matrimonio finirà per rimetterci la vita. Per rintracciare quest’altro patrono della Gmg dobbiamo spostarci questa settimana in Papua Nuova Guinea, e precisamente a Rakunai (nei pressi di Rabual), dove nel 1912 nasce il Beato Pietro To Rot. Suo padre Angelo è un capotribù influente e carismatico, tra i primi convertiti al cattolicesimo, che ha avuto un ruolo fondamentale nella diffusione del Vangelo nella sua terra. Mamma Maria è invece una cristiana fervente, che sa educare la famiglia come i primi missionari europei hanno insegnato. Pietro eredita dal padre le doti del leader, da mamma una particolare sensibilità per la religione: è forse per questa felice fusione di doti naturali, insieme ad una devozione tutta speciale ed alla predisposizione per gli studi, che il missionario crede di individuare in lui i germi della vocazione al sacerdozio e già pensa di mandarlo a studiare in Europa. E’ papà Angelo (provvidenzialmente, diremmo oggi con il senno del poi) a decidere per Pietro ed a programmargli un futuro di capo laico e di catechista. Si prepara così a questo ministero laicale, confermando quanto gli altri avevano intuito di lui: sorprendentemente portato per l’insegnamento, ottimo conoscitore della Bibbia, capace di relazionarsi con tutti, con un forte ascendente soprattutto sui giovani. Un leader nato, insomma. A 21 anni appena, il più giovane di tutta la zona, è già un catechista impagabile, braccio destro e provvidenziale collaboratore del missionario. Nel 1936, a 24 anni, si sposa con Paula Varpit, una ragazza di 16 anni che sembra fatta apposta per lui, perché ne condivide la fede, gli ideali, i propositi e l’impegno. La loro è un’unione sorretta dalla preghiera quotidiana e dalla lettura della Bibbia: nella loro casa si respira una fede vissuta, testimoniata e poi anche trasmessa ai primi figli che arrivano. Con il passare degli anni la spiritualità di Pietro si affina, la sua naturale capacità di relazione si trasforma in cordiale disponibilità verso tutti, assume sempre più un ruolo di guida indiscussa: oltre che farsi apprezzare riesce pure a farsi amare. La gente si accorge che Pietro vive ciò che insegna e lo ammira per la forza del carattere, la coerenza e la generosità che dimostra. Nel 1942 l’esercito imperiale giapponese attacca ed occupa l’intera regione, prendendo subito di mira la religione portata dagli occidentali: tutti i missionari europei sono cacciati o internati nei campi di concentramento e si distruggono tutte le cappelle cattoliche. L’unico a rimanere “sul campo” è proprio Pietro: innanzitutto perché indigeno e poi perché laico, quindi non equiparabile ai missionari che i giapponesi vogliono colpire. Con naturalezza e semplicità si prende così in carico la comunità rimasta senza sacerdote: amministra battesimi, segue malati e moribondi, assiste alla celebrazione dei matrimoni, custodisce l’Eucaristia. E’ cosciente dei rischi che corre, ma è soprattutto convinto che bisogna “dare precedenza alle cose di Dio”. I giapponesi conciano a marcarlo stretto, coscienti di avere in lui il peggior nemico da abbattere in quanto unico punto di riferimento per i cattolici della zona. Le cose per lui si mettono decisamente male quando prende posizione netta contro la poligamia che i giapponesi vogliono di nuovo introdurre: l’unità e l’indissolubilità sono le caratteristiche irrinunciabili del matrimonio cattolico e Pietro lo grida, ripetutamente e forte, con la fermezza del Battista, che dalla sua cella si scagliava contro il concubinaggio di Erode. Con doppia sofferenza, ma con la coerenza di sempre, si oppone anche a suo fratello, che si è già preso una seconda moglie. Pietro sa che, così facendo, sta segnando irrimediabilmente la sua sorte, ma con grande serenità dice a tutti che “è bello morire per la fede”. Lo arrestano a Natale del ’44 e lo chiudono in un campo di concentramento, dove la sua serenità è turbata soltanto dal pensiero della sua comunità rimasta senza guida. Inutile ogni tentativo di liberarlo, anche quello organizzato dai metodisti in accordo con alcuni cattolici. I giapponesi vogliono liberarsi in fretta di quello scomodo testimone del Vangelo: in una notte imprecisata del luglio 1945 un medico giapponesi accompagnato da due ufficiali lo sopprime con una iniezione letale. Martire per la fede e per la difesa del matrimonio, il catechista Pietro To Rot, “marito devoto, padre amoroso e catechista impegnato” è stato beatificato da Giovanni Paolo II il 17 gennaio 1995.
Autore: Gianpiero Pettiti
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Questo fiore della santità cattolica, sbocciato nella lontana e bella terra dell’arcipelago dell’attuale Stato di Papua Nuova Guinea, nacque nel 1912 nell’isola della nuova Bretagna a Rakunai - Rabaul.
I suoi genitori furono tra i primi abitanti di questa meravigliosa isola, che apparteneva allora all’arcipelago di Bismarck, colonia tedesca, a convertirsi dal paganesimo alla religione cattolica, dopo l’arrivo dei missionari nel 1882.
Frequentò la scuola elementare della Missione e il corso per catechisti nel vicino collegio S. Paolo di Taliligap, ottenuto il diploma di catechista, collaborò con il missionario di Rakunai nell’opera di evangelizzazione.
Si sposò con Paola Ia Varpit, l’11 novembre 1936, dalla loro unione nacquero tre figli di cui l’ultimo venne alla luce dopo la morte del padre.
Durante la II guerra mondiale, i giapponesi invasero l’arcipelago di Bismarck, che dal 1920 era stato affidato come mandato all’Australia, i sacerdoti e religiosi presenti nel territorio nel 1942, furono internati nel campo di concentramento e Pietro To Rot, il quale nel distretto era ben conosciuto per lo zelo a cui assolveva il suo compito di catechista, si assunse la responsabilità della comunità cattolica.
Sostituì per quanto consentito, l’attività pastorale dei missionari come le preghiere comunitarie, l’assistenza ai matrimoni, conferì il battesimo, dispensò quando poté l’Eucaristia agli ammalati.
Nel 1945, i giapponesi proibirono ogni attività religiosa, ma il beato nonostante il pericolo, proseguì nella sua opera, anche se in forma più discreta. Fu arrestato per questo due volte e condannato a due mesi di prigione; stava scontando ormai da sei settimane questa pena, nel campo di Vunaiara, quando fu ucciso in una notte del luglio 1945, dalle guardie che lo sorvegliavano.
Aveva più volte detto a parenti ed amici che era pronto anche a morire per la sua fede cristiana. La notizia della sua morte, suscitò nell’isola un rimpianto generale e la convinzione, sin d’allora, che si trattava della testimonianza di un autentico martire della fede.
La fama della sua santità si estese in tutto lo Stato e continua tutt’oggi; il papa Giovanni Paolo II, l’ha beatificato il 17 gennaio 1995, in una solenne cerimonia tenuta a Port Moresby, durante il suo viaggio apostolico che toccò anche la Papua Nuova Guinea.
La festa liturgica è stata fissata al 7 luglio.
Autore: Antonio Borrelli
Martirologio Romano: A Winchester in Inghilterra, beati martiri Rodolfo Milner, contadino e padre di famiglia, povero e analfabeta, ma fermo nella fede e Ruggero Dickinson, sacerdote, i quali sotto la regina Elisabetta I furono catturati insieme e uccisi con il supplizio del patibolo. Insieme ad essi si fa memoria del beato Lorenzo Humphrey, giovane che per avere abbracciato la fede cattolica morì impiccato nello stesso luogo in un giorno rimasto ignoto.
m. 695
Figlia del re degli inglesi orientali, si consacrò a Dio come religiosa nel monastero di Ebreuil in Francia, del quale fu badessa.
Martirologio Romano: A Faremoutiers-en-Brie presso Meaux in Aquitania, in Francia, santa Edilburga, badessa, che, figlia del re degli Angli orientali, rese gloria a Dio con la severa astinenza del corpo e la perpetua verginità.
Grande festa oggi in cielo per questa grande coppia di sposi! Aquila e Priscilla, collaboratori di San Paolo. Ma è anche interessante la vita di questo santo re inglese, Edgaro, sotto il cui regno si ebbe una duratura pace e tanta prosperità. Sposo due volte, forse 3 e padre di santi e sante!
I secolo
Aquila e Priscilla erano due coniugi giudeo - cristiani, molto cari all'apostolo Paolo per la loro fervente e molteplice collaborazione alla causa del Vangelo. Aquila, giudeo originario del Ponto, trasferitosi in tempo imprecisato a Roma, sposò Priscilla (o Prisca). L'apostolo intuì subito le buone qualità dei due coniugi, quando chiese di essere ospitato nella loro casa a Corinto. I due lo seguirono anche in Siria, fino ad Efeso. Qui istruirono nella catechesi cristiana Apollo, l'eloquente giudeo - alessandrino, versatissimo nelle Scritture, ma ignaro di qualche punto essenziale della nuova dottrina cristiana, come il battesimo di Gesù. Aquila e Priscilla fecero in modo di battezzarlo prima che partisse per Corinto. Niente si può asserire con certezza sul tempo, luogo e genere di morte di Aquila e Priscilla, dato che le uniche fonti su di essi sono citazioni bibliche. Alcuni identificano Priscilla con la vergine e martire romana Prisca e Aquila con qualcuno della gens Acilia, collegata con le Catacombe, perciò i due sarebbero martiri per decapitazione. (Avvenire)
Martirologio Romano: Commemorazione dei santi Aquila e Prisca o Priscilla, coniugi, che, collaboratori di san Paolo, accoglievano in casa loro la Chiesa e per salvare l’Apostolo rischiarono la loro stessa vita.
Aquila e Priscilla erano due coniugi giudeo-cristiani, molto cari all'apostolo s. Paolo per la loro fervente e molteplice collaborazione alla causa del Vangelo. Aquila, giudeo originario del Pònto, trasferitosi in tempo imprecisato a Roma, sposò Priscilla o Prisca, come è due volte chiamata.
Troviamo i due santi per la prima volta a Corinto, quando Paolo vi arrivò nel suo secondo viaggio apostolico l'anno 51: essi erano venuti da poco nella capitale dell'Acaia provenienti da Roma, loro abituale dimora, in seguito al decreto dell'imperatore Claudio, che ordinava l'espulsione da Roma di tutti i giudei, fossero essi cristiani, o meno. Aquila e Priscilla erano probabilmente cristiani prima del loro incontro con Paolo a Corinto, come sembra suggerire la familiarità che subito nacque tra di loro, benché il Sinassario Costantinopolitano li dica battezzati da Paolo. L'apostolo intuì subito le buone qualità dei due coniugi e l'utilità che ne poteva trarre per la sua difficile missione a Corinto e chiese o accettò di essere loro ospite. Esercitando essi il medesimo mestiere di Paolo (fabbricanti di tende), diedero all'apostolo agio di poter lavorare e provvedersi il necessario alla vita senza essere di peso a nessuno. Quando poco dopo si dice che Paolo, lasciata la sinagoga, "entrò nella casa d'un tale Tizio Giusto, proselita", non è necessario pensare che abbia lasciato la casa di Aquila e Priscilla; l'apostolo, abbandonata la sinagoga per il rifiuto dei giudei a convertirsi, avrebbe scelto come luogo di predicazione e di culto la casa vicina ad essa, quella del proselita Tizio Giusto, mantenendo però come dimora abituale durante l'anno e mezzo che rimase a Corinto la casa di Aquila e Priscilla. È opportuno notare a questo riguardo che non si dice fungesse da "chiesa domestica" l'abitazione dei due a Corinto, come era invece il caso di quelle che essi avevano a Roma e a Efeso. s. Paolo, terminata la sua missione a Corinto, volle fare ritorno in Siria, ebbe compagni di viaggio Aquila e Priscilla fino ad Efeso, dove essi rimasero. L'oggetto del loro viaggio potrà essere stato commerciale, ma l'averlo fatto coincidere con quello di Paolo indica, oltre alla loro stima ed amore per lui, che essi non erano estranei alle sue preoccupazioni apostoliche. Ad Efeso infatti li vediamo premurosi, dopo la partenza dell'apostolo, nell'istruire "nella via del Signore", cioè nella catechesi cristiana, nientemeno che il celebre Apollo, l'eloquente giudeo-alessandrino, versatissimo nelle Scritture, ma ignaro di qualche punto essenziale della nuova dottrina cristiana, come il battesimo di Gesù. Aquila e Priscilla, mossi da apostolico zelo, si presero cura di completare la sua istruzione e probabilmente di battezzarlo prima che egli partisse per Corinto. Ad Efeso offrirono la loro casa a servizio della comunità per le adunanze cultuali (ecclesia domestica) e, secondo la lezione di alcuni codici greci, seguiti dalla Volgata latina, s. Paolo sarebbe stato loro ospite anche ad Efeso, come già lo era stato a Corinto. Scrivendo infatti da Efeso (verso il 55) la prima lettera ai Corinti, dice: "Molti saluti nel Signore vi mandano Aquila e Priscilla, con quelli che nella loro casa si adunano, dei quali sono ospite". Ma l'elogio più caldo di Aquila e Priscilla lo fa l'apostolo scrivendo da Corinto ai Romani nell'a. 58 (intanto i due coniugi per ragione del loro commercio si erano trasferiti a Roma). Nella lunga serie di venticinque persone salutate nel c. 16 della lettera ai Romani Aquila e Priscilla sono i primi: "Salutate Prisca e Aquila, miei collaboratori in Cristo Gesù: per salvare a me la vita, essi hanno rischiato la testa; a loro non solo io rendo grazie, ma anche tutte le Chiese dei gentili. Salutate anche la comunità che si aduna in casa loro". In queste parole si sente l'animo grato dell'apostolo per i suoi insigni benefattori, che con grave loro pericolo gli hanno salvato la vita, in un'occasione non meglio precisata: forse ad Efeso, durante il tumulto degli argentieri capeggiati da Demetrio. Grande lode è poi per i due santi sposi che tutte le Chiese dei gentili siano loro debitrici di gratitudine; di tre delle principali - Corinto, Efeso, Roma - si è fatto cenno nei testi sopracitati. L'ultima menzione di Aquila e Priscilla l'abbiamo nell'ultima lettera di s. Paolo che, prigioniero di Cristo per la seconda volta a Roma, scrive al suo discepolo Timoteo, vescovo di Efeso, incaricandolo di salutare Priscilla e Aquila, che di nuovo si erano recati ad Efeso. Niente si può asserire con certezza sul tempo, luogo e genere di morte di Aquila e Priscilla, dato che le uniche fonti su di essi sono le poche notizie bibliche citate. Alcuni, volendo identificare Priscilla, moglie di Aquila, con la vergine e martire romana s. Prisca venerata nella chiesa omonima sull'Aventino, e con Priscilla, la titolare delle Catacombe della Via Salaria, e credendo altresì ravvisare nel nome di Aquila qualcuno della gens Acilia collegata con le dette Catacombe, li fanno martiri, anzi, prendendo occasione dal "cervices suas supposuerunt" di Rom. 16,4. determinano il genere di martirio: la decapitazione.
Autore: Teofilo Garcia de Orbiso Fonte: Enciclopedia dei Santi
943/944 - 8 luglio 975
Ultimogenito di Edmondo il Magnifico, re d'Inghilterra, e di Elfgiva, Edgaro nacque verso il 943. Allorché Edmondo venne assassinato (26 magg. 946), data la giovane età dei figli, gli successe sul trono il fratello Edred, che prese cura dell'educazione dei nipoti. Alla morte di Edred, il 23 novembre 955, Edwy, fratello di Edgaro, salì al trono. Nel 957, tuttavia, i nobili di Mercia e di Northumbria, scontenti del governo di Edwy, gli si ribellarono e posero Edgaro sul trono della parte settentrionale del regno. Alla morte di Edwy, nell'ottobre 959, Edgaro divenne sovrano di tutta l'Inghilterra. Da allora l'intero regno godette di particolare pace e prosperità, per cui il re venne ricordato con l'appellativo di Pacifico. Uno dei primi atti di Edgaro, nel salire sul trono di Mercia e di Northumbria nel 957, fu quello di richiamare s. Dunstano, abate di Glastonbury, dall'esilio in cui era stato relegato da Edwy, che mal sopportava i rimproveri del santo per le sue crudeltà e sregolatezze, e lo creò immediatamente primo vescovo di Worcester trasferendolo poi nel 959 alla sede di Londra ed infine, nell'anno seguente, alla sede primaziale di Canterbury. Edgaro mantenne sempre stretti rapporti con s. Dunstano, scegliendolo a suo principale consigliere particolarmente per la politica ecclesiastica. A tale intimità di rapporti va probabilmente collegato il sorgere della leggenda secondo cui, alla nascita di Edgaro, s. Dunstano avrebbe udito voci angeliche annunziare la pace dell'Inghilterra. Per la sua politica ecclesiastica Edgaro, oltre a s. Dunstano, ebbe a consiglieri s. Etelvoldo, abate di Abingdon e dal 963 vescovo di Winchester, e s. Oswald, vescovo di Worcester nel 961 e dal 972 arcivescovo di York. Questi tre santi prelati furono i promotori della riforma monastica in Inghilterra, che Edgaro appoggiò con tutti i mezzi e talora anche con l'uso della forza, particolarmente per superare le opposizioni del clero secolare, che in varie fondazioni venne sostituito da monaci. Verso il 970 ca., a Winchester, si tenne un sinodo, nel quale fu redatto un codice di norme monastiche ad uso di tutto il regno e che è conosciuto col nome di Regularis Concordia. I sovrani furono dichiarati patroni ex officio di tutto l'istituto monastico e per essi si prescrissero preghiere in tutti i monasteri. In tale occasione, Edgaro indirizzò all'assemblea dei vescovi una sua perorazione. Numerosi monasteri furono quindi restaurati e convenientemente dotati.
Le norme ecclesiastiche conosciute sotto il nome di Canoni di Edgaro sono in realtà opera di Wulfstano, arcivescovo di York dal 1002 al 1023. Di Edgaro restano tuttavia quattro codici molto brevi, dei quali il II ed il IV riguardano materie ecclesiastiche. Il II dà norme circa la salvaguardia dei diritti delle chiese, particolarmente in materia di decime, circa il denaro di S. Pietro, l'osservanza della festività domenicale, l'osservanza dei digiuni, il pagamento degli obblighi per i defunti e, infine, circa il mantenimento del diritto di asilo alle chiese che ne beneficiavano. Nel IV, che fu redatto in occasione di una pestilenza nel 962-63, Edgaro, riconoscendo in tale flagello un castigo celeste, invitava i suoi sudditi a riparare a tutti i torti dei quali si fossero resi colpevoli, e in particolare a pagare le dovute decime alle chiese. Gli ufficiali regi avrebbero vigilato su tali pagamenti. Si invitavano infine gli ecclesiastici, che avrebbero beneficiato di tali decime, a condurre una vita pura e sottomessa ai propri vescovi. Negli altri due codici, oltre ad alcune norme di carattere amministrativo, viene solennemente riaffermata la volontà di tutelare i diritti di ciascuno, indipendentemente dal censo, e inoltre viene riconosciuto ai Danesi, particolarmente numerosi nella parte occidentale del regno, il diritto ad una forma di autogoverno. Quest'ultima norma si inquadra nella politica generale di decentramento seguita da Edgaro verso le varie parti del regno. Tale atteggiamento nei confronti dei Danesi, come pure le relazioni sia politiche sia commerciali mantenute da Edgaro con i paesi esteri, formano oggetto di critica da parte di alcuni scrittori.
Seguendo l'usanza già introdotta dal suo predecessore Athelstan, Edgaro nei suoi documenti si definisce Albionis Imperator Augustus o con altre espressioni similari indicanti il carattere imperiale della sua sovranità. Ebbe grande fama anche fuori d'Inghilterra e strinse alleanze con Ottone il Grande e poi con Ottone II. Ebbe pure una grande flotta, con la quale ogni anno compiva una crociera attorno al regno: lo storico Florenzio di Worcester esagera, tuttavia, facendo salire a 3600 il numero dei suoi vascelli.
In generale, nell'esercizio del potere, Edgaro mantenne un tono particolarmente brillante, favorito dalla pace che riuscì a mantenere continuamente, ad eccezione di alcune locali e brevi spedizioni militari, per tutta la durata del suo regno. Edgaro sposò Etelfleda, figlia di Ordmaer, conte dell'Anglia Orientale, dalla quale ebbe un figlio, s. Edoardo, che gli successe sul trono e che fu assassinato nel 979.
Nel 964-65 Edgaro sposò quindi la vedova di Etelvoldo, Elfrida, figlia di Ordgar, conte del Devonshire, e da questa ebbe Edmondo (m. 971) ed Ethelredo che nel 979 successe a s. Edoardo. Inoltre, ebbe una figlia, s. Edith (o Eadgith), da Wulfthryth; nonostante alcuni affermino, non si sa con quale fondamento, che si sia trattato di un vero matrimonio, sembra quasi certo che sia stata una relazione irregolare. Wulfthryth si trovava nel monastero di Wilton, al tempo della sua relazione con Edgaro; alcuni scrittori, però, tra i quali Guglielmo di Malmesbury, sostengono che Wulfthryth si trovava nel monastero, ma non come monaca e quindi senza voti. Edith venne educata nel monastero di Wilton, dove prese poi il velo e morì santamente nel 984. Anche Wulfthryth abbracciò la vita monastica e fu, in seguito, badessa dello stesso monastero.
Non si sa per quali ragioni la incoronazione di Edgaro venne rimandata fino alla Pentecoste del 973: la leggenda afferma che per la colpa suddetta s. Dunstano avrebbe imposto ad Edgaro di rimanere per sette anni senza corona. La solenne cerimonia ebbe luogo a Bath e fu officiata da s. Dunstano e da s. Oswald, arcivescovo di York. Seguì una grande festa a Chester ed in tale occasione sei (per altre fonti otto) re, tra i quali quelli di Scozia, del Cumberland e vari principi del Galles fecero atto di sottomissione ad Edgaro La leggenda aggiunge che essi si posero ai remi del battello reale, mentre Edgaro stava al timone, per andare dalla reggia alla chiesa di S. Giovanni Battista. Morì l'8 luglio 975 e venne sepolto nell'abbazia di Glastonbury con grande solennità.
Nel 1052 si procedette ad una traslazione dei resti di Edgaro, che furono collocati in onore in un'urna sull'altare della chiesa assieme alle reliquie di s. Apollinare e di s. Vincenzo martire. Guglielmo di Malmesbury narra che in tale occasione, allorché si scavò il tumulo, il corpo di Edgaro fu trovato incorrotto. Siccome l'urna predisposta era troppo piccola, per poter essere sistemato, il corpo fu tagliato e da esso sgorgò sangue vivo; ma colui che aveva osato sezionarlo morì all'uscita della chiesa.
Edgaro fu ben presto onorato con culto pubblico a Glastonbury, ove numerosi miracoli vennnero attribuiti alla sua intercessione. La sua memoria viene celebrata all'8 luglio; la prima edizione del Martirologio Anglicano ed altri autori, tra cui il Ferrari (Cat. gen., p. 215) lo ricordano al 24 maggio Nel British Museum è conservata una elegante copia di un documento di Edgaro del 966 a favore dell'abbazia di New Minster a Winchester; esso è in forma di codice, è scritto in oro in "minuscola carolina" e mostra nel frontespizio Edgaro col Cristo in maestà, la Vergine e s. Pietro.
Autore: Gian Michele Fusconi Fonte:Enciclopedia dei Santi
Devon, 1476 – Londra, 8/9 luglio 1539
Nato da nobile famiglia nella contea di Devon, cugino di Anna Bolena, si sposò con Anna Stonor da cui ebbe due figlie, poi rimasto vedovo sposò Anna Rede di Boarstall che gli diede tre figli. Fu terziario domenicano nella fraternità di Oxford. Il 29 agosto 1534 fu messo in carcere una prima volta e fu liberato nella primavera del 1535. Nel febbraio del 1539 fu imprigionato nella Torre di Londra e fu decapitato l'8 o il 9 luglio per avere proditoriamente rifiutato il giuramento di fedeltà al re in materia religiosa.
Etimologia: Adriano = nativo di Adria (Rovigo), dal latino
Emblema: Palma
Martirologio Romano: A Londra in Inghilterra, beato Adriano Fortescue, martire, che, padre di famiglia e cavaliere, falsamente accusato di tradimento sotto il re Enrico VIII e due volte detenuto in carcere, portò infine a termine il martirio con la decapitazione.
Il Martirologio Romano al 9 luglio, riporta la celebrazione del beato Adriano Fortescue, padre di famiglia, martire in Inghilterra; egli è il secondo beato che subì il martirio in ordine di tempo, dopo il primo glorioso gruppo di 19 beati Certosini di Londra, impiccati nel tristemente famoso Tyburn di Londra, il 4 maggio e il 15 giugno 1535, nella sanguinosa e lunga persecuzione contro i cattolici in Gran Bretagna.
La storia delle persecuzioni anticattoliche in Inghilterra, Scozia, Galles, parte dal 1535 e arriva al 1681, primo a scatenarla fu come è noto il re Enrico VIII (1491-1547), che provocò lo Scisma d’Inghilterra con il distacco della Chiesa Anglicana da Roma.
Artefici più o meno cruenti, furono oltre Enrico VIII, i suoi successori Edoardo VI, la terribile Elisabetta I la “regina vergine”, Giacomo I Stuart, Carlo I, Oliviero Cromwell e Carlo II Stuart.
In 150 anni di persecuzione, morirono migliaia di cattolici inglesi appartenenti ad ogni ramo sociale, testimoniando così il loro attaccamento alla fede cattolica e al papa, rifiutando i giuramenti di fedeltà al re, nuovo capo della religione di Stato.
Solo nel 1850, con la restaurazione della Gerarchia Cattolica in Inghilterra e Galles, si poté affrontare la possibilità di una beatificazione dei numerosi martiri, perlomeno di quelli il cui martirio era provato, nonostante i due-tre secoli trascorsi; e dal 1886 i Sommi Pontefici, a gruppi più o meno numerosi o singolarmente, hanno proceduto alla loro beatificazione e poi alla successiva canonizzazione per un buon numero di essi.
Adriano Fortescue era nato verso il 1476 da nobile famiglia, nella contea di Devon, era cugino di Anna Bolena (1507-1536), seconda moglie di Enrico VIII, il cui matrimonio fu una delle cause della separazione della Chiesa Anglicana da Roma; Adriano sposò in prime nozze Anna Stonor da cui ebbe due figlie e in seconde nozze Anna Rede di Boarstall, dalla quale ebbe tre figli.
Secondo lo stile di vita dei nobili dell’epoca, frequentò la corte; combatté per il suo re contro la Francia nel 1513 e nel 1523; fu accompagnatore a Calais della regina Caterina di Aragona, sposa dal 1509 di Enrico VIII, che successivamente fece annullare questo primo matrimonio; fu presente all’incoronazione di sua cugina Anna Bolena, seconda delle sei mogli del dispotico re (delle quali due furono ripudiate e due decapitate).
Adriano Fortescue fu giudice di pace per la contea di Oxford, cavaliere dell’Ordine del Bagno, membro del Sovrano Ordine di Malta e Terziario Domenicano nella Fraternità di Oxford.
Uomo di grande spiritualità e vita ascetica, scrisse e firmò una serie di massime nel suo Libro delle Ore, ancora conservato: “Prega continuamente Dio di poter compiere quello che è il suo beneplacito”; “ Segui diligentemente le ispirazioni dello Spirito Santo in tutto quello che stai per fare”; “prega per la perseveranza”; “Rinnova ogni giorno i tuoi buoni propositi”; “Qualunque cosa debba fare, falla diligentemente”.
Verso la politica e la deplorevole condotta di Enrico VIII, si mostrò sempre prudente e distaccato; ciò nonostante, ma si ignora la causa, fu arrestato il 29 agosto 1534 e rinchiuso nel carcere di Marshalsea, da cui fu liberato nella primavera del 1535; intanto il re con il suo “Atto di supremazia” del 3 novembre 1534, aveva dato inizio allo Scisma Anglicano, appoggiato dalla malvagità di uomini come Tommaso Cromwell, del cardinale Thomas Wolsey e dell’arcivescovo Thomas Cranmur.
Adriano venne arrestato una seconda volta nel febbraio 1539 e rinchiuso nella Torre di Londra, dove fu decapitato insieme ad altri, l’8 o il 9 luglio 1539; l’atto di accusa diceva: “Per avere proditoriamente rifiutato il giuramento di fedeltà al re in materia religiosa e commesso altri vari e diversi detestabili tradimenti e suscitata ribellione nel regno”.
Il martire, primo fra i laici cattolici a morire per la sua fede in quel periodo, fu beatificato il 13 maggio 1895 da papa Leone XIII.
La sua data di culto è il 9 luglio, mentre viene celebrato dall'Ordine Domenicano nel giorno 8 luglio.
Autore: Antonio Borrelli
Damasco, Siria, † 10 luglio 1860
I tre fratelli Francesco, Abdel-Mooti e Raffaele Massabki, laici cattolici maroniti, furono vittime di una sanguinosa persecuzione scatenata nel XIX dai turchi contro la Chiesa patriarcale maronita. Essi morirono a Damasco, in Siria, il 10 luglio 1860 ed in tale anniversario sono commemorati dal Martyrologium Romanum, essendo stati beatificati nel 1926 dal pontefice Pio XI. L’iconografia sorta su di loro li raffigura solitamente insieme, inginocchiati dinnanzi all’altare, talvolta con la sciabola, oggetto del loro martirio.
Martirologio Romano: A Damasco in Siria, passione dei beati martiri Emanuele Ruíz, sacerdote, e compagni, sette dell’Ordine dei Frati Minori e tre fratelli fedeli della Chiesa Maronita, che, con l’inganno consegnati ai nemici da un traditore, furono sottoposti per la fede a varie torture e conclusero il loro martirio con una morte gloriosa.
Bisogna dire che i tre fratelli Massabki, sono già citati nella scheda dei Beati Martiri Francescani di Damasco, con i quali subirono il martirio e furono beatificati il 10 ottobre 1926 da papa Pio XI.
Essi perirono nella tragica notte del 9-10 luglio 1860, che ridusse il quartiere cristiano di Damasco in Siria, ad un cumulo di macerie fumanti; gli otto missionari francescani, sette spagnoli e un austriaco, svolgevano la loro vita comunitaria nel convento di Damasco, estendendo l’apostolato fra la popolazione locale.
Fino a quando i Drusi, setta religiosa di origine musulmana sciita, in preda al loro fanatismo di insofferenza religiosa, scoppiato negli anni 1845-46 e poi specialmente nel 1860, contro il cristianesimo, percorsero con furia omicida la città, facendo stragi di cristiani.
I francescani Emanuele Ruiz, Carmelo Volta, Engelberto Kolland, Ascanio Nicanore, Pietro Soler, Nicola Alberga, Francesco Pinzo, Giovanni Giacomo Fernandez, si rifugiarono fra le solide mura del convento e con loro anche tre fedeli cristiani maroniti, loro collaboratori.
Purtroppo, forse fra gli inservienti locali, ci fu un traditore che segnalò una porticina secondaria, che nessuno aveva pensato di sprangare, permettendo ai fanatici fondamentalisti islamici, di massacrare tutti a colpi di scimitarra.
Diamo qui qualche notizia sui tre fratelli di sangue di Damasco; essi godevano nella comunità maronita di vasta stima di osservanti e zelanti cristiani, Francesco, il fratello maggiore era un negoziante di seta molto ricco, ciò nonostante osservava i precetti religiosi con esattezza, facendoli osservare dai familiari; fu molto duro con una figlia che aveva violato il digiuno quaresimale; iniziava la sua giornata assistendo alla celebrazione della Messa e la terminava con la funzione liturgica serale e per questo anticipava la chiusura del negozio.
Abdel-Mooti (= servo del Donatore), invece si era ritirato dagli affari di commerciante, temendo di non poter sempre tenere la coscienza tranquilla e si dedicò all’insegnamento nella scuola dei Francescani.
Anche lui ogni mattina assisteva alla Messa con la figlia, uscendo con ogni tempo anche con la neve; prevedendo la sua fine, quel giorno si congedò dai suoi alunni, esortandoli a non temere il martirio, considerandolo una grazia divina.
Raffaele Massabki era celibe e amava la solitudine contemplativa, tra la casa e la vicina chiesa, trascorreva molte ore ogni giorno nella preghiera e nella meditazione, aiutava il fratello Francesco nel negozio e il sacrestano nella vicina chiesa francescana.
Quando verso l’una dopo mezzanotte, i Drusi penetrarono nel convento, dove si erano rifugiati con gli otto francescani, essi furono chiamati per nome e invogliati dai fondamentalisti ad abiurare la fede cristiana e ritornare a quella islamica, così avrebbero avuto salva la vita, ma essi singolarmente, come i cristiani dei primi tempi, rifiutarono con parole di fede genuina e convinta e furono massacrati a colpi di scimitarra, sciabola, mazze ferrate, a Raffaele fu staccato il capo di netto e il suo corpo calpestato.
Quando il 17 dicembre 1885 fu iniziato il processo per la beatificazione dei martiri francescani di Damasco, i tre fratelli Massabki, benché periti nello stesso giorno, luogo, motivo e circostanze, furono dimenticati.
Ma quando nella primavera del 1926, a causa conclusa, si fissò la data della solenne beatificazione per il 10 ottobre, l’episcopato maronita che come è noto è legato alla Chiesa di Roma, con a capo l’arcivescovo di Damasco, presentò a papa Pio XI una urgente istanza, affinché i tre fratelli Massabki maroniti, periti anch’essi nell’eccidio attuato dai Drusi musulmani, fossero accomunati nella gloria ai padri francescani, come lo furono nella vita e nel martirio.
Papa Pio XI con un gesto rimasto unico nella storia della Congregazione dei Riti, riconoscendo legittima la richiesta, dispose un processo sommario sulla vita e sulla morte di Francesco, Abdel-Mooti e Raffaele Massabki, incaricando per questo mons. C. Salotti, promotore della fede e il padre Santarelli, postulatore dei Frati Minori, che si recarono in Siria e in Libano per le indagini, raccogliendo le dovute e genuine testimonianze, compresa quella del parroco maronita, Moussa Karam loro contemporaneo e miracolosamente sfuggito alla strage.
Il 7 ottobre papa Pio XI, viste le prove raccolte e concedendo la dispensa dei miracoli prescritti, firmò il decreto per la loro beatificazione, che come già detto ebbe luogo il 10 ottobre successivo insieme agli otto francescani.
La loro celebrazione comune fu fissata al 10 luglio.
Autore: Antonio Borrelli
secolo Saintes nel Brabante - † Maubeuge (Belgio) VII sec.
Antichissima era la tradizione di questo nome tra gli Ostrogoti, tanto che la loro dinastia era appunto quella degli ‘Amali’. Il nome è attualmente scomparso, mentre si è molto diffusa la forma abbreviata di ‘Amalia’.
Di s. Amalberga ve ne sono tre, di cui due contemporanee fra loro, e si festeggiano lo stesso giorno il 10 luglio, a volte anche sotto il nome di ‘Amalia’.
S. Amalberga detta di Maubeuge, le notizie pervenutaci e redatte da un monaco di Lobbes, sono ritenute in gran parte leggendarie e non affidabili. Nacque a Saintes (Brabante) nei Paesi Bassi, fu sposa di Witger e madre di Emeberto (che diverrà poi vescovo di Cambrai) e delle sante Reinalda e Godula.
Amalberga, d opo la nascita di Godula e dopo che suo marito era morto, lasciò il mondo per abbracciare la vita religiosa a Maubeuge; ella avrebbe ricevuto il velo monastico dalle mani di s. Oberto e sarebbe morta alla fine del secolo VII.
Da Maubeuge il suo corpo fu trasportato all’abbazia di Lobbes (Hainaut) attuale Belgio. La sua festa si celebra il 10 luglio.
Dell’altra S. Amalberga vergine, secondo una ‘Vita’ scritta da un monaco dell’abbazia di S. Pietro di Gand, era nata nelle Ardenne, nella ‘villa Rodingi’ (Belgio), allevata a Bilsen da santa Landrada e avrebbe ricevuto il velo monacale da s. Willibrordo.
Visse tra il VII e l’VIII secolo; trascorse i suoi ultimi anni nella cittadina di Tamise, dove morì nella seconda metà del secolo VIII ed a Tamise fu sepolta. Un secolo dopo le sue reliquie furono traslate nel monastero di S. Pietro di Gand (Belgio), dove furono solennemente esposte nel 1073.
Di lei parla anche un diploma di Carlo il Calvo imperatore (823-877), che in data 1° aprile 870, attesta che le reliquie di s. Amalberga vergine, erano conservate in quel tempo, dai monaci di S. Pietro di Monte Blandino a Gand. La festa si celebra il 10 luglio.
Autore: Antonio Borrelli
Nel giorno di san Benedetto, patrono d'Europa, la Chiesa ricorda anche Olga, tra i primi santi russi inseriti nel calendario cattolico. È considerata l'anello di congiunzione tra epoca pagana e cristiana. Nacque nell'890 nei pressi di Pskov da un capo variago, popolazione di origine normanna. Era traghettatrice sul fiume Velika, quando conobbe il principe Igor Rjurikovic, che la sposò. Morto questi divenne reggente di Kiev. Si convertì al cristianesimo nel 957. Il nipote san Vladimiro sarebbe stato il "battezzatore della Rus'". Tenne contatti con Costantinopoli. Morì quasi 80enne nel 969. (Avvenire)
Etimologia: Olga = di buona salute, dal tedesco; santa, dallo scandinavo
Martirologio Romano: A Kiev nel territorio dell’odierna Ucraina, santa Olga, nonna di san Vladimiro, che prima tra i Rurikidi ricevette il battesimo e il nome di Elena, aprendo a tutto il popolo di Russia la via a Cristo.
Olga è tra i primi santi russi-slavi inseriti nel Calendario cattolico bizantino; è considerata l’anello di congiunzione tra l’epoca pagana e quella cristiana, nella storia dei popoli russi.
Le fonti che parlano di lei sono numerose e tutte di rilevanza storica, da esse apprendiamo che Olga nacque nell’890 nel villaggio Vybuti a pochi km da Pskov, sul fiume Velika.
Bellissima popolana era addetta al traghettamento delle persone sul fiume stesso; nel 903 fu vista dal principe Igor Rjurikovic che volle sposarla sebbene giovanissima. In realtà Olga o Helga era figlia di un capo variago, tribù normanna di origine scandinava, che proveniente dal Nord si occupavano di traffici e commerci lungo la via del Volga, del Mar Nero e del Caucaso; sicuramente il padre era sorvegliante e responsabile di qualche punto strategico di questo percorso.
Il loro matrimonio fu il simbolo concreto della fusione del popolo russo-slavo con quello variago, che alla fine del secolo IX cominciava ad attuarsi sotto il benefico influsso del Cristianesimo.
Nell’anno 945 il principe Igor, marito di Olga, fu ucciso dai Drevljani ed ella con un temperamento retto ma violento, vendicò con fermezza l’assassinio, mandando a morte molti capi nemici e imponendo ai superstiti tributi e tasse di ogni genere.
Divenne reggente del principato di Kiev, per il figlio Svjatoslav di tre anni, governò con saggezza politica, riuscendo a far diventare tributaria di Kiev la stessa importante provincia di Novgorod; amata dal popolo che le riconosceva il merito di essere giusta e misericordiosa, ma anche inflessibile, educò rettamente il figlio, anche se non ebbe la gioia di saperlo cristiano, dopo che lei verso il 957, si era convertita al cristianesimo. Sarà uno dei nipoti Vladimiro a darle questa soddisfazione, infatti non solo diventò cristiano e battezzato, ma diventerà "battezzatore della Rus’", "nuovo apostolo" e santo della Chiesa.
La prima conversione del popolo russo-variago fu nell’862 attraverso i bizantini, poi ci fu l’opera di apostolato dei santi Cirillo e Metodio e pur attraversando un periodo di persecuzione da parte dei refrattari Variaghi, il cristianesimo si andò affermando in tutto lo Stato, di pari passo con la diffusione della lingua slava e già al tempo del governo del principe Igor, esisteva a Kiev una chiesa dedicata al profeta Elia.
Olga con la sua conversione e con la sua opera contribuì attivamente all’evangelizzazione del regno "Rus’".
Tentò di stringere legami solidi con l’Impero di Bisanzio, desiderando di sposare il figlio Svjatoslav con una principessa bizantina; nel 957 si recò personalmente a Costantinopoli, ma il viaggio risultò infruttuoso fra la delusione dei cristiani e la soddisfazione dei pagani.
Allora i cristiani si appoggiarono all’imperatore Ottone I di Sassonia e nel 959 gli chiesero di inviare un vescovo per la Russia, che purtroppo nel 962 fu scacciato da una rivolta pagana.
Olga pregava giorno e notte per la conversione del figlio e per il bene dei sudditi, al termine della reggenza, secondo le leggi di allora, si ritirò nei suoi possedimenti privati, dove continuò nella sua opera di apostolato e missionaria, costruì alcune chiese fra cui quella in legno di S. Sofia a Kiev.
Visse piamente e morì a circa 80 anni l’11 luglio 969. Dice il suo biografo Giacomo: prima del Battesimo la sua vita fu macchiata da debolezze e peccati, crudeltà e sensualità; ella ciononostante divenne santa non certo per suo merito, ma per un disegno speciale di Dio sul popolo russo.
La venerazione per Olga cominciò sotto il governo del nipote s. Vladimiro, che nel 996 fece trasportare il corpo nella chiesa da lui fatta costruire. La festa fu fissata all’11 luglio, venerazione che fu poi confermata dal Concilio Russo del 1574.
I mongoli, nel 1240 invasero e distrussero completamente Kiev, 400 anni dopo il metropolita della città Pietro Moghila, fece restaurare le antiche chiese distrutte e le reliquie di s. Olga sembra che siano state ritrovate, ma dal 1700 non si hanno più notizie di dove siano.
Autore: Antonio Borrelli
L'avreste detto che Santa veronica era sposata? E che fosse la moglie addirittura di Zaccheo? E che probabilmente era lei l'emorroissa? vediamo poi due Santi sposi martiri e infine un'altra madre di famiglia martire anch’essa per aver nascosto in casa un sacerdote.
Il suo nome ricorre per la prima volta nei Vangeli apocrifi e si riferisce alla donna emorroissa di nome Bernike in greco, Veronica in latino, che implorando Gesù per la sua guarigione, mentre passava stretto nella folla, riuscì a toccargli il lembo del mantello, guarendo all'istante. La tradizione cristiana racconta che successivamente, la pia donna, votò la propria vita alla diffusione della buona novella e viaggiò per l'Europa lasciando a Roma il lino col volto Santo («la vera icona», come predestinato dal suo stesso nome) e proseguì in Francia dove iniziò la conversione dei galli. L'episodio di Veronica che asciuga il volto di Gesù con un telo, ha preso grande diffusione, oscurando quasi del tutto, l'episodio della emorroissa, che sarebbe secondo taluni, la stessa donna, anche se non vi sono certezze documentali. Santa Veronica ha un particolare culto in Francia, dove la si considera come la donna che dopo la morte del Salvatore, andata sposa a Zaccheo si reca ad evangelizzare le Gallie. Sarebbe morta nell'eremitaggio di Soulac. Chiamata anche santa Venice o Venisse, è patrona in Francia, dei mercanti di lino e delle lavandaie. (Avvenire)
Il nome della Veronica, ricorre per la prima volta nei Vangeli apocrifi (Atti di Pilato cap. 7) e si riferisce alla donna emorroissa di nome Bernike in greco, Veronica in latino, che implorando Gesù per la sua guarigione, mentre passava stretto nella folla, riuscì a toccargli il lembo del mantello, guarendo all’istante.
Gesù chiese chi l’aveva toccato e gli apostoli risposero: “è la folla che ti stringe da ogni parte”, ma Gesù insiste perché ha sentito una forza che usciva da lui e allora l’emorroissa si fece avanti e gettandosi ai suoi piedi, dichiarò davanti a tutti, il motivo per cui l’aveva toccato e il beneficio che aveva ricevuto. Gesù le rispose: “Figlia la tua fede ti ha salvata, va in pace!”, Lc. 8, 43-48.
Lo storico Eusebio (265-340) nella sua ‘Historia eccl.’ (VII, 18), racconta che a Cesarea di Filippo vi era la casa della miracolata emorroissa Bernike, supposta originaria di Edessa in Siria e che davanti alla porta della casa si ergeva una statua in bronzo, rappresentante una donna piegata su un ginocchio con le mani tese in atto d’implorazione, davanti a lei la statua di un uomo in piedi, avvolto in un mantello, che tende la mano alla donna; ai suoi piedi cresceva una pianta sconosciuta elevata fino al mantello e ritenuta di efficace rimedio per ogni tipo d’infermità.
La statua dell’uomo, si diceva rappresentasse Gesù ed Eusebio conclude dicendo, che al tempo del suo soggiorno in quella città, il gruppo bronzeo era esistente. Altro autore, Sozomeno, dice che il monumento eretto in onore del Redentore a Cesarea di Filippo, fu abbattuto durante la persecuzione di Giuliano l’Apostata, (331-363).
Dal secolo XV in poi, in Occidente prende corpo la devozione verso la Veronica quale figura del gruppo delle pie donne, che asciuga il volto di Gesù con un panno o sudario, mentre percorre con la croce la salita del Calvario, rimanendo il Volto stesso impresso sul panno; creando così tutta una serie di varianti alla più antica immagine dell’emorroissa, raffigurata nella statua di Paneas (Cesarea di Filippo).
La donna sarebbe poi venuta a Roma, portando con sé la sacra reliquia; alcuni testi apocrifi come la “Vindicta Salvatoris”, dicono che il funzionario romano Volusiano, sequestra con la violenza il telo alla donna e lo porta a Tiberio, il quale appena lo vede guarisce dalla lebbra; Veronica abbandona ogni cosa in Palestina e segue il suo telo a Roma, riavutolo, lo tiene con sé e prima di morire lo consegna al papa s. Clemente.
Nei secoli successivi, la Veronica ebbe a fasi alterne un culto, non figurando però negli antichi Martirologi, né in quelli Medioevali, in qualche secondario martirologio è citata al 4 febbraio.
La tradizione della donna che asciuga il volto di Gesù, con un telo, da cui sarebbe scaturito il nome Veronica ‘vera icona’, ha senz’altro preso grande diffusione oscurando quasi del tutto, l’episodio della emorroissa, che sarebbe secondo taluni, la stessa donna, anche se non vi sono certezze nei tanti documenti più o meno apocrifi.
Essa è stata rappresentata in tantissime opere scultoree e di pittura, che ne hanno prolungata l’immagine fino ai nostri giorni, inserendola anche nei personaggi della pia pratica della Via Crucis alla sesta stazione. Il lungo itinerario iconografico che la ricorda con il celebre Santo Sudario, primo ed unico ritratto del Volto Santo, ebbe il suo culmine con la grande statua della Veronica, opera dello scultore Francesco Mocchi del secolo XVII, posta nella Basilica di S. Pietro in Vaticano, centro della cristianità.
Dal secolo XIII si venerò in S. Pietro a Roma, una immagine del volto di Cristo, detto ‘velo della Veronica’ (che anche Dante cita nel Par. XXXI, 104), che gli studiosi identificarono per lo più con l’icona tardo bizantina attualmente lì conservata.
A queste devozioni è connessa l’origine del culto del Volto Santo. Santa Veronica ha un particolare culto in Francia, dove la si considera come la donna che dopo la morte del Salvatore, andata sposa a Zaccheo si reca ad evangelizzare le Gallie e sarebbe morta nell’eremitaggio di Soulac; chiamata anche s. Venice o Venisse, è patrona in Francia, dei mercanti di lino e delle lavandaie.
Autore: Antonio Borrelli
+ Nagasaki, Giappone, 12 luglio 1626
Le leggi persecutorie dell'inizio del sec. XVII proibivano sotto pene severissime, l'aiuto e l'ospitalità ai missionari cristiani di origine straniera. La famiglia Tanaca non si curò di questo pericolo, ma con molta generosità diede accoglienza nella loro casa di poveri agricoltori a molti missionari stranieri. Essendo distante qualche miglio da Nagasaki ed in luogo non molto accessibile poteva costituire un naturale nascondiglio. Anche il p. Bartolomeo Torres ed il suo catechista Michele Tozò trovarono rifugio presso i pii Tanaca; ma la delazione di un rinnegato o l'invidia di giapponesi vicini di casa portarono alla scoperta dei missionari e all'imprigionamento degli stessi ospitanti. Marito e moglie furono trasferiti nelle carceri di Omura ove soffrirono gravi pene, sottoposti a un trattamento inumano, nonostante il quale rimasero fermissimi nella fede.
Il 12 luglio 1626 venne l'ordine di trasferirli a Nagasaki per poi suppliziarli sulla collina della città, già celebre per altri martiri. Caterina morì per decapitazione, mentre il marito Giovanni fu sottoposto alla pena del fuoco. Il governatore Feizò volle più raffinato il supplizio: la legna, bagnata perché ardesse più lentamente, fu sistemata ad una certa distanza dal palo ove il martire era legato, in modo da farlo penare maggiormente. Quando il fuoco ebbe bruciato le funi, Giovanni sentendosi slegato si recò presso i compagni di martirio per baciarne le mani; poi ritornato al proprio palo lentamente fu consumato. Le ceneri vennero gettate in mare per impedirne la venerazione ai cristiani. I due martiri furono beatificati il 6 luglio 1867. La loro festa si celebra il 12 luglio.
Autore: Gian Domenico Gordini Fonte: Enciclopedia dei Santi
Ba Den, Vietnam, 1781 - Ninh Bình, Vietnam, 12 luglio 1841
Etimologia: Agnese = pura, casta, dal greco
Martirologio Romano: Nella provincia di Ninh Bình sempre nel Tonchino, sant’Agnese Lê Th? Thành (Ðê), martire, che, madre di famiglia, sebbene sottoposta a crudeli torture per aver nascosto in casa sua un sacerdote, si rifiutò di rinnegare la fede e morì in carcere sotto l’imperatore Thi?u Tr?.
Assai difficile è sempre stato reperire notizie certe sui martiri, sin dai primi secoli dell’era crstiana, e questo problema sussiste però talvolta anche per martiri dell’epoca moderna, soprattutto se vissuti in qualche angolo sperduto del pianeta, proprio come Santa Agnese Le Thi Thanh, di nazionalità vietnamita. Agnese nacque nel 1781 circa a Ba Den, nei pressi di Tranh Hoa in Vietnam. Madre di famiglia, all’età di sessant’anni anni fu imprigionato e sottoposta a crudeli torture per aver nascosto in casa sua un sacerdote. Rifiutatasi di rinnegare la fede cristiana, morì in carcere nella provincia di Ninh Binh nel Tonchino sotto l’imperatore Thieu Tri in data 12 luglio 1841. Agnese Le Thi Thanh fu canonizzata da Papa Giovanni Paolo II il 19 giugno 1988 con altri 116 martiri che avevano irrorato con il loro sangue la sua patria vietnamita. Il gruppo, noto con il nome “Santi Andrea Dung Lac e compagni”, è festeggiato comunemente dal calendario liturgico latino al 24 novembre. Sant’Agnese è invece festeggiata singolarmente al 12 luglio dal Martirologio Romano.
Autore: Fabio Arduino
973 - Bamberga, Germania, 13 luglio 1024
Enrico II è un esempio di rettitudine nell'arte del governare: per questo oltre che santo è patrono delle teste coronate. Nato nel 973 vicino a Bamberga, in Baviera, crebbe in un ambiente cristiano. Il fratello Bruno divenne vescovo di Augsburg (Augusta), una sorelle si fece monaca e l'altra sposò un futuro santo, il re d'Ungheria Stefano. Enrico venne educato prima dai canonici di Hildesheim e, in seguito, dal vescovo di Regensburg (Ratisbona), san Wolfgang. Si preparò così all'esercizio del potere, cosa che avvenne dapprima quando divenne Duca di Baviera, e poi nel 1014 quando " già re di Germania e d'Italia " Papa Benedetto VIII, lo incoronò a guida del Sacro Romano Impero. Tra i consiglieri ebbe Odilone, abate di Cluny, centro di riforma della Chiesa. Enrico morì nel 1024. Fu lui a sollecitare l'introduzione del Credo nella Messa domenicale. (Avvenire)
Patronato: Oblati benedettini
Etimologia: Enrico = possente in patria, dal tedesco
Emblema: Corona, Globo, Scettro
Martirologio Romano: Sant’Enrico, che imperatore dei Romani, si adoperò insieme alla moglie santa Cunegonda per rinnovare la vita della Chiesa e propagare la fede di Cristo in tutta l’Europa; mosso da zelo missionario, istituì molte sedi episcopali e fondò monasteri. A Grona vicino a Göttingen in Germania lasciò in questo giorno la vita.
Nella storia della Chiesa riscontriamo non poche coppie di sposi ascese alla gloria degli altari, vicende di santità coniugale sovente purtroppo poco conosciute, come quella di Cunegonda ed Enrico, quest’ultimo singolarmente festeggiato in data odierna nell’anniversario della sua morte. Le notizie sul suo conto ci provengono da due versioni della sua Vita, attribuite ad Adalberto di Utrecht ed Adalberto di Bamberga.
Nato nel 972 dal duca bavarese Enrico il Litigioso e Gisella di Borgogna, Enrico fu istruito dal vescovo di Ratisbona, San Volfango. Enrico ebbe un fratello, Bruno, che rinunciò agli agi della vita di corte per divenire pastore d’anime come vescovo di Augusta, nonché due sorelle: Brigida, che si fece monaca, e Gisella, che andò in sposa al celebre Santo Stefano d’Ungheria. Nel 995 Enrico II succedette al padre quale duca di Baviera e nel 1002 al cugino Otone III come re di Germania. Contro Enrico insorse il celebre Arduino d’Ivrea, che dopo tante fatiche aveva ottenuto la corona d’Italia, ma questi lo sconfisse con un’armata e poi raggiunse Roma con sua moglie Cunegonda per ricevere la corona imperiale da Papa Benedetto VIII, che lo pose così a guida del Sacro Romano Impero.
Enrico si mostrò in vari modi benefattore della Chiesa, restaurando le sedi di Hildeshein, Magdeburgo, Strasburgo e Meersburg. Nel 1006 fondò la diocesi di Bamberga ed in tale città fece edificare la cattedrale ed un monastero, onde rafforzare il suo potere in quella parte della Germania. In questa sua opera fu osteggiato dai vescovi di Wurzburg ed Eichstatt, che perdettero parte del territorio delle loro diocesi. Il sovrano pensò bene di ottenere al riguardo l’approvazione pontificia e lo stesso Benedetto VIII officiò nel 1020 la consacrazione della nuova cattedrale.
Il santo imperatore sostenne la riforma cluniacense, in particolare Sant’Odilone di Cluny e Riccardo di Saint-Vanne, e fu lui inoltre a sollecitare l’introduzione della recita del Credo nella Messa festiva, pur restando un potente sovrano intento ad estendere la sua influenza ed il suo potere. Alcune delle sue azioni politiche appaiono infatti equivoche, se analizzate da un punto di vista del bene del cristianesimo: rovesciò infatti la politica dei suoi predecessori nei confronti dell’Oriente cristiano e, come ebbe ad evidenziare il Dvornik, per la prima volta “il capo dell’impero del cristianesimo occidentale prende le armi contro un paese [la Polonia], il cui carattere cristiano è stato così apertamente e solennemente benedetto dal suo predecessore”.
Pur di perseguire i suoi scopi, strinse alleanze con alcune popolazioni pagane, consentendo loro di praticare le loro religioni apertamente e di portare in battaglia i loro stendardi ed i loro dei. A molti suoi contemporanei tale atteggiamento parve in assoluto contrasto con quello tradizionale dell’imperatore in dovere di convertire i pagani. Fu perciò aspramente criticato da San Bruno di Querfurt, missionario proprio in terra pagana: “E’ giusto perseguitare una nazione cristiana e concedere amicizia ad una nazione pagana? In che modo può Cristo avere relazione con Satana? In che modo possiamo paragonare la luce al buio? Non è meglio combattere i pagani per il bene del cristianesimo, piuttosto che far torto ai cristiani per onori terreni?”.
Queste sono solo alcune delle ragioni per cui pare fu problematico, agli occhi dei suoi primi biografi, dipingere Enrico II come un santo ed a tal fine non restò che creare, forse artificiosamente edificanti leggende che lo descrissero come un governante riluttante ed un monaco sincero, intento a condurre uno stile di vita ascetico, vivendo il matrimonio in castità. Si trattò però in gran parte di esagerazioni volte ad esaltare oltre misura la sua opera pubblica e la sua vita privata.
Enrico tornò nuovamente in Italia nel 1021, per una spedizione in Puglia contro i bizantini, ma si ammalò e sulla via del ritorno fu portato a Montecassino, ove secondo la leggenda guarì miracolosamente pregando sulla tomba di San Benedetto. Restò tuttavia storpio per il resto dei suoi giorni, fino alla morte avvenuta a Bamberga il 13 luglio 1024. Sua moglie Cunegonda si ritirò in un monastero benedettino da lei fondato ed infine fu sepolta accanto al marito nella cattedrale di Bamberga.
L’imperatore Enrico II, forse innanzitutto per il suo aperto appoggio concesso al papato, fu canonizzato nel 1152, o secondo altre fonti autorevoli nel 1146 dal papa Beato Eugenio III, ma solo nel 1200 fu raggiunto nel canone dei santi dalla moglie Cunegonda.
Da una «Vita antica» di sant'Enrico.
Questo santo servo di Dio, ricevuta l'unzione regale, non fu contento delle ristrettezze di un regno terreno, ma, per conseguire la corona della vita immortale, si propose di militare sotto le insegne del sommo Re. Servire lui è regnare! Perciò usò grandissima diligenza nel diffondere l'amore alla religione, nell'assicurare alle chiese benefici e suppellettili preziose. Stabilì nel suo stesso palazzo la sede episcopale di Bamberga sotto i titoli dei principi degli apostoli Pietro e Paolo e del glorioso martire Giorgio. Ne fece omaggio con diritti particolari alla santa Chiesa di Roma, per rendere alla prima Sede l'onore dovutole per diritto divino. Con questo alto patronato diede solide basi alla sua fondazione.
Perché poi a tutti sia noto con quale vigilanza quest'uomo santo abbia provveduto la sua nuova chiesa dei beni della pace e della tranquillità anche per i tempi futuri, inseriamo qui, a conferma, una sua lettera: «Enrico per divina Provvidenza re, a tutti i figli della Chiesa presenti e futuri. Siamo invitati e ammoniti dai salutari insegnamenti della Sacra Scrittura di abbandonare i beni temporali e le comodità di questa terra e cercare con ogni mezzo di conseguire le dimore eterne dei cieli. Infatti il godimento della gloria presente è transitorio e vano, a meno che non sia orientato all'eternità celeste. E la misericordia di Dio provvide al genere umano un utile rimedio quando stabilì che i beni della terra fossero il prezzo della patria celeste.
Perciò a noi, memori di questa clemenza e ben sapendo di essere stati innalzati alla dignità regale per una gratuita disposizione della misericordia di Dio, è parsa cosa buona non solo di ampliare le chiese costruite dai nostri predecessori, ma di costruirne delle nuove a maggior gloria di Dio e dotarle di benefici e favori in segno della nostra devozione. Perciò, porgendo vigile ascolto ai comandamenti del Signore e osservando i divini consigli, desideriamo mettere in serbo in cielo i tesori elargiti dalla generosa liberalità divina; in cielo dove i ladri non sfondano né rubano, né il tarlo o la tignola li consumano; in cielo dove, mentre ora ci diamo premura di raccogliervi tutte le nostre cose, anche il nostro cuore possa rivolgersi più spesso con desiderio e con amore.
Pertanto vogliamo che tutti i fedeli sappiano che noi abbiamo innalzato alla dignità di prima sede episcopale una località che si chiama Bamberga, lasciataci in eredità dal nostro padre, perché là si mantenga un solenne ricordo di noi e dei nostri genitori e si offra continuamente il sacrificio di salvezza per tutti i fedeli».
ORAZIONE
O Dio, che hai colmato dei tuoi doni Sant’Enrico
e dalla regalità terrena lo hai innalzato alla corona eterna,
assisti e proteggi i tuoi fedeli, perchè tra le vicende del mondo
corrano incontro a te nella giustizia e nella santità.
Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio,
e vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo,
per tutti i secoli dei secoli. Amen.
Autore: Fabio Arduino
+ Chau Doc, Vietnam, 13 luglio 1859
Canonizzato da Papa Giovanni Paolo II il 19 giugno 1988.
Martirologio Romano: Nella città di Châu Ð?c in Cocincina, ora Viet Nam, sant’Emanuele Lê Van Ph?ng, martire, che padre di famiglia, sebbene detenuto in carcere, non cessò di esortare figli e familiari alla carità verso i persecutori e morì infine decapitato per ordine dell’imperatore T? Ð?c.
Nacque a Dau-Nuoe, nell'isola di Cu-laogieng. Cristiano di profonde convinzioni e cavaliere senza paura — attesta mons. Lefebvre, provicario della Cocincina occidentale — spiegò come catechista uno zelo per la cristianità in cui viveva, che ha del meraviglioso: eresse infatti a Dau-Nuoc una chiesa, un convento di Figlie di Maria, la casa del missionario e un collegio. Si era guadagnato la benevolenza del sottoprefetto con forti somme, per cui qualsiasi perquisizione nella sua casa finiva sempre senza alcun risultato.
Ma un giorno due individui, volendo vendicarsi di non aver ricevuto da lui una somma di danaro, lo accusarono non più al sottoprefetto, ma allo stesso governatore, di albergare in casa un prete europeo, Claudio Pernot. Compiuta una perquisizione da trecento soldati, non fu trovato il sacerdote europeo, perché partito da poco; si consegnò invece ai soldati il sacerdote annamita Pietro Qui, che si proclamò capo della missione. Bastò questo per arrestare sia Le-Van-Phung, sia il sacerdote e trentadue altri cristiani e condurli a Chau-Doc (7 genn. 1859).
Nella prigione dove Le-Van-Phung riceveva i suoi figli e gli amici, continuò il suo apostolato, esercitandoli nella carità, anche verso i nemici. Riusciti vani e inviti e promesse e minacce per provocarne l'apostasia, fu condannato allo strangolamento. Sul luogo dell'esecuzione a Cay-Met, inginocchiato di fronte al p. Qui, ne ricevette l'assoluzione e dopo aver pregato i figli presenti di portare il suo corpo a Dau-Nuoc e dare ad esso una sepoltura modesta accanto al missionario, offerse il collo alla fune che gli troncò il respiro e la vita (13 lugl. 1859). Fu beatificato da s. Pio X il 2 magg. 1909.
Autore: Celestino Testore Fonte:Enciclopedia dei Santi
Iniziamo da San Vincenzo che è stato proclamato santo con l'intera famiglia, la moglie Santa Valetrude e tutti e quattro i figli: Landerico, Aldetrude, Madelberta e Deutelino! E non per martirio, ma proprio per le pie opere che hanno compiuto!
Abbiamo poi una Santa Sposa particolare, la Beata Angelina, che fece voto di verginità e, costretta a sposarsi la prima notte di nozze venne un angelo a parlarle. Quindi il Beato Hroznata, che dopo la prematura morte della moglie e dell'unico figlio fondò due monasteri. E finiamo con Santa Toscana che dopo la morte del marito, distribuì i suoi beni ai poveri e si dedicò all'assistenza agli infermi, a Verona.
+ 677 circa
Martirologio Romano: A Soignies in Austrasia, nel territorio dell’odierno Belgio, san Vincenzo o Madelgario, che, d’accordo con la moglie santa Valtrude, abbracciò la vita monastica e si dice abbia fondato due monasteri.
Nella storia della cristianità non mancano, anche se spesso sconosciuti, i casi di intere famiglie elevate agli onori degli altari, come per esempio il santo oggi festeggiato, San Vincenzo Madelgario che è venerato con la moglie e l’intera prole.
Madelgario, ricco signore di origine franca, era nativo di Strépy, attualmente in territorio belga. Convolò a nozze con Valdetrude, dalla quale ebbe ben quattro figli: Landerico, Aldetrude, Madelberta e Deutelino. Non appena i figli furono abbastanza grandi da provvedere a se stessi, i coniugi di comune accordo decisero di separarsi per meglio potersi dedicare al servizio di Dio nella vita religiosa. Santa Valdetrude si ritirò a Mons, mentre Madelgario intraprese la fondazione di un monastero presso Haumont, ove divenne monaco assumendo il nome religioso di Vincenzo. Dopo un certo periodo, nel 653, si trasferì a Soignies, città di cui era signore, e vi fondò un altro monastero. Presagendo forse la sua imminente morte, ne affidò poco prima la direzione al figlio Landerico, vescovo di Metz. Vincenzo Madelgario morì il 14 luglio probabilmente dell’anno 677.
Mancano opportuni fondamenti storici per accettare vari altri elementi leggendari della sua vita: la sua supposta origine guascogna, un viaggio che avrebbe compiuto in Irlanda e l’obbligo del matrimonio impostogli da suo padre.
Ben presto iniziò una spontanea venerazione popolare nei suoi confronti e divenne santo patrono della città di Soignies, dove ancora oggi campeggia una bella basilica romanica che porta il suo nome. Uno scrigno del XIII secolo, contenete la reliquia del suo capo, fu distrutto durante la rivoluzione francese, ma la leggenda vuole che il prezioso si sia salvato ed ora riposi in un reliquiario sostitutivo creato nel 1803. Il culto del santo ancora al giorno d’oggi è molto forte ed è caratterizzato da due processioni che si svolgono a Soignies annualmente il 14 luglio ed il lunedì dopo Pentecoste. Il Martyrologium Romanum, calendario ufficiale della Chiesa Cattolica, lo commemora nell’anniversario della morte.
Autore: Fabio Arduino
Monte Giove, Orvieto, 1377 – Foligno, 14 luglio 1435
Nata nel 1377 a Montegiove (Orvieto), Angelina, rimasta orfana della madre, a dodici anni fece voto di verginità. Nel 1393 venne costretta dal padre a sposarsi, ma la sera stessa delle nozze un angelo del Signore la visitò, rassicurandola sul futuro. Dopo un anno, rimasta vedova, Angelina distribuì i sui beni ai poveri, potendo finalmente indossare il saio di Francesco d'Assisi. Dopo di lei, altre ragazze decisero di seguirla, suscitando le ire dei feudatari, che le costrinsero all'esilio. Giunta a Foligno nel 1395, due anni dopo emise i tre voti evangelici. Nacquero così le terziarie francescane regolari. La beata Angelina morì nel 1435 e venne sepolta nella chiesa francescana di Foligno. Nel 1492, in seguito ad un miracolo, la salma venne trovata intatta. Esumata, fu deposta in un'urna preziosa. (Avvenire)
Etimologia: Angelina (come Angela) = messaggero, nunzio, dal greco
Martirologio Romano: A Foligno in Umbria, beata Angelina da Marsciano, che, rimasta vedova, per oltre cinquant’anni si consacrò esclusivamente al servizio di Dio e del prossimo, dando inizio all’Ordine religioso delle Terziarie Francescane di clausura per la formazione della gioventù femminile.
Clarissa, fondatrice del Terz' Ordine regolare femminile, nacque nel 1377 nel castello di Monte Giove (Orvieto). A dodici anni, rimasta orfana della madre, fece il voto di verginità e, quando nel 1393 il padre la costrinse a sposarsi, Dio le mandò, la sera stessa delle nozze, il suo angelo a rassicurarla. Sorpresa in conversazione con il messaggero celeste dallo sposo, gli svelò il segreto della sua anima pura, ed egli giurò di imitarla. Dopo un anno, rimasta vedova, Angelina distribuì tutti i suoi beni ai poveri e vestì l'umile saio di san Francesco, facendosi promotrice della verginità e della purezza dei costumi, seguita da altre fanciulle, che abbandonarono il mondo per il Signore. La cosa suscitò le ire dei feudatari, che indussero Ladislao, re di Napoli, a decretarne l'esilio insieme con le sue compagne.
Partita con queste da Civitella, il 31 luglio 1395 giunse ad Assisi e andò a visitare le tombe di san Francesco e di santa Chiara; di là si recò a Foligno, dove nel 1397, con le sue seguaci, emise i tre voti evangelici. Sorgeva così il primo nucleo di terziarie francescane regolari. Al primo monastero, dedicato a sant'Anna, altri ne seguirono: ad Assisi nel 1421, a Viterbo nel 1427, a Firenze nel 1429, a Rieti, ecc. Nel 1430 Martino V, che aveva riunito tutti questi monasteri sotto un'unica superiora generale, pose la nuova istituzione sotto la giurisdizione dei Frati Minori, assegnandole come scopo specifico l'educazione e l'istruzione della gioventù femminile.
Angelina morì il 14 luglio 1435 e fu sepolta, dopo solenni funerali, nella chiesa francescana di Foligno. Nel 1492, in seguito a un miracolo, la sua salma, trovata intatta, fu esumata e, chiusa in un'urna preziosa, collocata in un altare di fronte alla tomba della beata Angela. Il suo culto fu confermato l'8 marzo 1825. La festa si celebra il 14 luglio.
Autore: Germano Cerafogli Fonte: Enciclopedia dei Santi
Teplá (Boemia), 1160 – Kinsberg, 14 luglio 1217
Emblema: Palma, Catene
Martirologio Romano: In località Stáry Kynsperk vicino a Eger in Boemia, beato Croznato, martire, che, morti la moglie e il figlio, si dice abbia lasciato la corte ducale per entrare tra i monaci premostratensi di Teplá; catturato poi dai predoni mentre tentava di difendere i diritti del monastero, fu lasciato morire di fame.
Figlio di una delle più illustri famiglie di Boemia nacque verso il 1160 a Teplá, rimasto vedovo prematuramente per la perdita della giovane moglie e per la morte dell’unico figlio, fondò a Teplá sui suoi terreni, il monastero di S. Maria per i Canonici Premostratensi.
Fu uno dei più importanti personaggi politici della corte di Praga di quei tempi; con altri cavalieri boemi, nel 1198 partì per la crociata, anche per adempiere ad un voto fatto di un pellegrinaggio in Terra Santa. Ma la crociata non andò a termine e papa Celestino III commutò il suo voto; allora Hroznata fondò, verso il 1200, un altro monastero a Chote_ov, per le Canonichesse Premostratensi, intitolandolo a S. Venceslao.
Nel 1201, a Roma, lui stesso prese l’abito dei Premostratensi (Ordine fondato nel 1121 da s. Norberto), dopo aver donato tutti i suoi beni al monastero di Teplá, dove poi visse come fratello laico, con il compito affidatogli dall’abate di amministratore dei beni della comunità.
L’abbazia era soggetta in quei tempi a soprusi che riguardavano i suoi beni e Hroznata si spostava spesso per difenderli, durante uno di questi viaggi, fu catturato dai briganti e portato al castello di Kinsberg ed incarcerato, al suo abate fu chiesta una forte somma di denaro per liberarlo, ma a causa dei maltrattamenti subiti, Hroznata nel frattempo morì santamente in carcere, il 14 luglio 1217.
Il suo corpo, riscattato dall’abate di Teplá, dopo solenni funerali, fu sepolto nella chiesa abbaziale. Fu venerato come martire e il suo culto ebbe inizio subito dopo la morte; nel secolo XIII una lampada ardeva continuamente sulla sua tomba e dal secolo XIV il giorno della sua morte, nei due monasteri premostratensi, era considerato festa di precetto.
Durante tutto il secolo XVI, i pellegrinaggi alla tomba raggiunsero notevoli proporzioni e fra i pellegrini si trovavano imperatori austriaci e vescovi, per questo fu costruito per lui un sontuoso altare.
Dietro richiesta dell’Ordine Premostratense e dell’arcivescovo di Praga Schönborn, papa Leone XIII, il 16 settembre 1897, confermò il culto da sempre tributatogli. La festa liturgica è al 14 luglio, è patrono dei perseguitati ingiustamente.
Autore: Antonio Borrelli
Zevio, 1280 circa - Verona, 14 luglio 1343
Dopo la morte del marito, distribuì i suoi beni ai poveri e si dedicò all'assistenza agli infermi, a Verona.
Patronato: Zevio (VR)
Martirologio Romano: A Verona, santa Toscana, che, alla morte del marito, distribuì tutti i suoi beni ai poveri e si dedicò incessantemente nell’Ordine di San Giovanni di Gerusalemme alla cura degli infermi.
La santa vedova Toscana a dispetto del nome era in realtà veneta, nativa di Zevio, nei pressi di Verona, ove vide la luce verso la fine del XIII secolo. Nel 1310 convolò a nozze con il veronese Alberto Canoculi (cioè “Dagli Occhi di Cane”), con il quale visse castamente il rapporto coniugale. Quattro anni dopo Toscana si trasferì a Verona, ove prese dimora presso una casupola sul colle di San Zeno in Monte. Poté così dedicarsi interamente all’assistenza dei poveri e degli abbandonati, che era solita visitare e soccorrere nelle loro umili dimore.
Rimasta vedova nel 1318, distribuì ai bisognosi tutti i suoi beni ed entrò a far parte dell’Ordine di San Giovanni di Gerusalemme alla cura degli infermi. Prese servizio nel’ospedale dell’ordine in Verona, attiguo alla chiesa del Santo Sepolcro, ove con amorevolezza e carità cristiana si diede tutta al servizio degli ammalati. Stremata dalle fatiche, ma felice del bene compiuto, si spense infine a Verona il 14 luglio 1343.
Santa Toscana è ancora oggi sepolta nella chiesa del Santo Sepolcro presso Porta Vescovo in Verona, chiesa detta appunto anche di Santa Toscana, e parecchi devoti sulla sua tomba invocano il suo celeste aiuto. Qui ha sede inoltre la delegazione del Sovrano Ordine di Malta.
Autore: Fabio Arduino
Un usurpatore del trono, che chiede in moglie la sorella dell'imperatore in contraccambio dei suoi aiuti militari e che ottiene solo conquistando una città imperiale (l'imperatore infatti, dopo un primo si ci aveva ripensato, ma poi cedette)... Resta da vedere come Vladimiro si guadagni il titolo di santo La buona fama si forma più tardi, grazie al mutamento della sua vita, che deve impressionare chi l’ha conosciuto prima.
Kiev (Ucraina) ca. 956 - 15 luglio 1015
Etimologia: Vladimiro = colui che possiede o domina la pace.
Martirologio Romano: A Kiev nell’odierna Ucraina, san Vladimiro principe, che ricevette al battesimo il nome di Basilio e spese le sue forze a diffondere tra i popoli a lui soggetti la retta fede.
Nel X secolo il principato russo di Kiev è pagano, tranne alcuni gruppi cristiani di Variaghi, di origine scandinava. Era cristiana Olga, moglie del Gran principe Igor I; ma lui è rimasto pagano, come il figlio Svjatoslav e i figli di questi. Vladimiro, escluso dalla successione perché figlio illegittimo di Svjatoslav, nel 980 toglie il regno e la vita al fratellastro Jaropolk, il quale aveva fatto lo stesso col fratello Oleg. Sono i metodi del tempo. Così sale al trono chi sarà chiamato “il santo” dalla voce popolare. Dapprima Vladimiro appoggia i culti pagani. Ma poi cristianizzerà lo Stato, attraversando vicende che sono narrate vivacemente da un documento attribuito al monaco Nestore di Kiev: la Cronaca degli avvenimenti passati. Qui troviamo un Vladimiro dapprima violento e sensuale, e poi diverso, nuovo, che si interessa di ebraismo, islam e cristianesimo. La politica lo spinge poi ad allearsi con l’Impero cristiano di Costantinopoli, e ad aiutarlo coi suoi soldati a domare una rivolta. Vladimiro salva l’Impero, e vuole in cambio come moglie la principessa Anna, sorella degli imperatori Basilio II e Costantino VIII. Pare che le nozze si celebrino già durante il conflitto, ma poi Basilio II rifiuta di lasciar partire Anna. Allora Vladimiro occupa finalmente la città imperiale di Cherson, in Crimea (luglio 989), e si porta a casa Anna: Basilio ha ceduto.
Eccolo a Kiev come principe cristiano, avendo ricevuto il battesimo a Cherson. All’epoca le due Chiese di Roma e di Costantinopoli sono unite, sebbene in continuo dissenso. Il papa Giovanni XV manda ambasciate a Vladimiro, e così Roma è “presente” alla nascita del nuovo regno cristiano (e infatti il culto per Vladimiro sarà poi riconosciuto da entrambe le Chiese). Ma a Kiev prevale l’influenza religiosa bizantina; sicché, con lo scisma d’Oriente avvenuto nel 1054, la Chiesa di Kiev seguirà Costantinopoli.
Resta da vedere come Vladimiro si guadagni il titolo di santo. Ha sì battezzato il suo popolo: ma come sbrigativo sovrano che comanda, non come apostolo che persuade (dopo di lui ci saranno infatti moti anticristiani). La buona fama si forma più tardi, grazie al mutamento della sua vita, che deve impressionare chi l’ha conosciuto prima. La sua generosità, dice un cronista, "riscatta i dissoluti costumi di un tempo". Egli mitiga poi in senso cristiano le leggi e pone i problemi dell’educazione e dell’aiuto ai poveri tra i doveri dei regnanti. Nel 1011, essendo morta Anna, Vladimiro sposa una nipote dell’imperatore Ottone I, collegandosi anche con l’Impero di nazione germanica.
La sua vita austera negli ultimi anni – sempre facendo i confronti – e la sua mitezza lo rendono ancora più popolare, motivando l’appellativo di “santo” dopo la morte. E il suo nome verrà tramandato nel tempo da un vasto fiorire di leggende e ballate popolari.
Autore: Domenico Agasso
Canonizzati da Papa Giovanni Paolo II il 1° ottobre 2000.
Martirologio Romano: In località Lüjiapo presso Qinghe nella provincia dello Hebei in Cina, santi Lang Yangzhi, catecumena, e Paolo Lang Fu, suo figlio, martiri, che durante la persecuzione dei Boxer, essendosi la madre professata cristiana, morirono martiri per Cristo nella loro casa data alle fiamme.
Sposa di un cristiano del villaggio di Lu-Kia-p'uo, non appena divenne catecumena cominciò a pregare con fervore e ad esercitare la carità verso il prossimo, dimostrando grande dolcezza e affabilità con tutti. Il 16 lugl. 1900 irruppero nel villaggio i Boxers e la giovane fu presa. Avendo ella decisamente affermato di essere cristiana, venne legata ad un frassino davanti alla sua stessa casa e invano alcuni buoni vicini cercarono di farla liberare. In quel momento arrivò il figlioletto Paolo di sette anni, che si gettò subito addosso alla madre. I Boxers presero anche il fanciullo lo legarono allo stesso albero; la beata intanto incoraggiava il figlio con parole di fede e di speranza nella gloria del Paradiso. Prima fu incendiata la loro casa, poi i due furono trafitti con lance ed i loro corpi vennero gettati alle fiamme.
Il marito, sfuggito al massacro, potè recuperare qualcosa dei loro resti tra le ceneri, ed avvoltili in fasce, li seppellì in due fosse vicine.
La beatificazione avvenne il 17 apr. 1955; la festa si celebra il 20 luglio.
Autore: Giovanni Battista Proja Fonte: Enciclopedia dei Santi
Martirologio Romano: In località Zhangjiaji presso Ningjin sempre nello Hebei, santa Teresa Zhang Hezhi, che nella medesima persecuzione, trascinata in una pagoda, si rifiutò di venerare le divinità del luogo e fu per questo trafitta insieme ai suoi due figli da una lancia.
Oggi ben due regine ed uno Zar! "regnare servendo" era lo stile di Santa Edvige, magnifico esempio di amministratore pubblico illuminato.
1247 – Barcellona, Spagna, 8 aprile 1300
Figlia del re di Sicilia Manfredi e nipote dell’imperatore Federico II, Costanza nacque nel 1247. Nel 1262 sposò Pietro III di Aragona dal quale ebbe sei figli, tra cui la futura santa Elisabetta di Portogallo. Sebbene direttamente coinvolta nelle burrascose vicende politiche del suo tempo, seppe mantenere un equilibrato distacco dalla vita terrena dedicandosi alla preghiera e alle opere di carità. Morì a Barcellona il venerdì santo dell’anno giubiliare 1300 e fu sepolta nella chiesa di S. Francesco; dal 1852 le spoglie riposano nella cattedrale della città, ove viene festeggiata il 17 luglio.
Figlia di Manfredi, re di Sicilia, e nipote dell'imperatore Federico II, nata nel 1247, nel 1262 sposò a Montpellier Pietro III il Grande d'Aragona; dal matrimonio nacquero sei figli, tra i quali s. Elisabetta, regina del Portogallo. Devotissima dell'Ordine Francescano, Costanza nel 1268 costruì il monastero di S. Chiara di Huesca e favorì poi largamente altre fondazioni e conventi. Incoronata col marito a Saragozza nel 1276, visse le delicate vicende delle guerre nazionali e della contesa del regno angioino di Sicilia da parte del marito, in gravi contrasti con il papa Martino IV, che appoggiava Carlo d'Angiò. Fu reggente durante la spedizione di Pietro in Africa e Sicilia (1282); avuto il regno di Sicilia dopo i «Vespri », si trasferì colà con i figli e governò con giustizia e prudenza in nome del marito e, dopo la morte di questo (1285), accanto al figlio Giacomo, sovrano del regno. Nel 1294 fondò un monastero di Clarisse a Messina e vi professò la regola di s. Chiara. Proclamato re di Sicilia il figlio Federico (Fadrique) e scomunicato da Bonifacio VIII che aveva riconosciuto i diritti degli angioini, Costanza obbedì ossequiosa al mandato del papa, il quale le aveva ordinato di lasciare la Sicilia, e, nel 1296, si trasferì a Roma dove l'anno seguente, per desiderio di pace, concertò il matrimonio di sua figlia Jolanda (Violante) con Roberto, duca di Calabria e figlio di Carlo II d'Angiò che, fatto prigioniero dagli aragonesi nel 1284, aveva avuto salva la vita per l'intercessione di Costanza presso il marito.
Dopo un breve soggiorno a Napoli accanto alla figlia, Costanza tornò a Roma e nel 1299 passò a Barcellona, dove legalizzò il testamento col quale, tra l'altro, ordinò la costruzione di due ospedali per i poveri, uno a Barcellona e l'altro a Valencia, sotto il governo e l'amministrazione dei Frati Mi-nori. Morì a Barcellona l'8 apr. (venerdì santo) 1300 e ivi fu certamente seppellita nella chiesa del convento di S. Francesco. Inesattamente alcuni cronisti fissano la data della morte al 1301 o al 1302 e il seppellimento nella chiesa di S. Chiara di Barcellona, oppure a Messina. Le sue spoglie, che rimasero nella chiesa di S. Francesco fino al 1835, furono trasferite nel 1852 in una cappella del chiostro della cattedrale. È ricordata il 17 lugl.; Dante la loda nel Purgatorio (III, 143) come la « buona Costanza ». Autore: Isidoro da Villapadierna Fonte: Enciclopedia dei Santi
Carskoe Selo, Russia, 18 maggio 1868 (6 maggio del calendario giuliano) – Ekaterinburg, Russia, 17 luglio 1918 (Chiese Orientali)
Una croce ortodossa bianca s’innalza oggi sul luogo del martirio degli ultimi Zar di Russia. Nel 1977 Boris Eltsin, allora primo segretario del Partito comunista a Sverdlovsk, ricevette da Mosca l’ordine di distruggere la casa Ipat’ev, luogo di prigionia e del massacro di Nicola II e della sua famiglia, casa che era diventata oggetto di troppa curiosità per molti e con «intenzioni sospette». Macchinari cantieristici lavorarono per una notte intera finché l’edificio venne completamente raso al suolo. Per una strana coincidenza sarà ancora Eltsin, già presidente della Russia, a dare solenne sepoltura ai resti dei Romanov nel 1998 a San Pietroburgo.
Di temperamento malleabile e velleitario, Nicola II (1868-1918) non era nato per il magistrale ruolo storico che il destino gli aveva imposto. Dotato di intelligenza vivace, di buona cultura, di costanza e metodo nel lavoro, oltre che di un grande fascino personale, Nicola II non ereditò dal padre la fermezza di carattere e la capacità sicura e determinata di decidere sugli accadimenti, qualità essenziali per un monarca autocratico. Oltre ad avere un alto grado di influenzabilità (il più delle volte, prima di prendere una decisione, subiva l’ascendente di colui che aveva l’opportunità di parlargli per ultimo), cedeva con grande facilità alle pressioni esterne e in particolare alla moglie di cui era teneramente innamorato.
Fu saldamente ancorato ai suoi principi semplici e forti, ereditati dal padre: lo zar è inviolabile e l’esercito russo invincibile; la religione ortodossa è la sola colla in grado di saldare il popolo al trono. L’unica minaccia, secondo lo zar Nicola, era l’intellighentia: un gruppo di uomini, sviati da cattive letture.
Il fatto di avere, al suo fianco, una straniera, tedesca per sangue e inglese per educazione, non gli giovò di certo, benché Alice d’Assia (1872-1918), divenuta con il matrimonio Alessandra Fëdorovna, abbia immediatamente amato la terra russa e soprattutto la sua religione, fino ad esserne rapita e affascinata, tanto da renderla fanatica dei suoi riti e delle sue impalcature.
La Zarina si circondava di antiche icone che, a suo dire, erano dotate di virtù straordinarie. Accoglieva con estrema disinvoltura monaci sospetti, pope sconociuti, pellegrini pseudo-illuminati e ascoltava tutti con imprudente infantilismo. Fra questi inquietanti personaggi si evidenzia l’infausto Rasputin («debosciato», etichetta data al padre perché grande bevitore di vodka), soprannome di Gregorio Efimovic Novychy (1870-1916). Personalità demoniaca, capace di forza ipnotica, fine psicologo, eroe di orge mistiche, Rasputin utilizzò la sua intelligenza per infiltrarsi alla corte degli Zar e impossessarsi della mente e dello spirito di Alessandra, la quale, sperando nella sua azione di guaritore, si affidò a lui per cercare la salvezza dello zarevic Alessio, unico figlio maschio, malato di emofilia e condannato ad una morte sicura.
Tutto ciò che Alessandra dice e scrive al consorte le è suggerito da Rasputin, convinto, comunque a ragione, che la fame porterà alla rivoluzione.
Uomo privato, più che pubblico, Nicola II ama prendere di più una tazza di tè insieme all’amata moglie che ascoltare un ministro, godere della presenza dei cinque figli (Olga, Tatiana, Maria, Anastasia, Alessio) che prestare attenzione ai lamenti del popolo, anche in momenti particolarmente gravi per la sua patria: scioperi, manifestazioni studentesche, attentati e omicidi ai danni di notabili… eppure sul suo diario preferisce annotare le variazioni di temperatura, descrivere una passeggiata in bicicletta, una gara di canottaggio, un momento particolarmente romantico con la sua Alessandra.
Con il tempo la zarina si ritaglia il suo spazio nell’autorità governativa fino ad interpellare personalmente i ministri, discutere con loro, nominarli o esautorarli.
Il popolo si ribellerà a questa situazione, e a prescindere dai disegni di Lenin, i russi, delusi del loro Zar, arriveranno ad odiare la dinastia Romanov.
Il presidente della Duma, Rodzjanko, convocato da Nicola II, confessa alla vigilia della rivoluzione: «Con nostra grande vergogna, il disordine regna ovunque. La nazione si rende conto che avete bandito dal governo tutti quelli che godevano della fiducia del popolo e che li avete sostituiti con personaggi indegni e incompetenti».
Caduti nelle mani dei bolscevichi, lo Zar lamenta il cattivo trattamento che devono subire e si sente rispondere da uno degli ufficiali sottoposti alla loro custodia: «Io provengo dal popolo. Quando il popolo vi tendeva la mano, non l’avete mai afferrata. Oggi non vi tenderò la mia». In molte fabbriche gli operai reclamano un castigo esemplare per i «vampiri Romanov».
Tutti gli errori compiuti da Nicola non giustificano affatto gli orrori della rivoluzione russa e dei suoi leader, compreso il massacro di Ekaterinburg. Il 20 agosto del 2000, nella cattedrale moscovita di Cristo Salvatore, l’ultimo Zar è stato canonizzato insieme ad altri 853 martiri della rivoluzione comunista.
Autore: Cristina Siccardi
Note: Per approfondire: Henri Troyat, Nicola II, L'ultimo zar e la tragica fine dei Romanov, Paoline Editoriale Libri
Buda (odierna Budapest), Ungheria, 18 febbraio 1374 – Cracovia, Polonia, 17 luglio 1399
Jadwiga, appartenente al ramo capetingio degli Angiò regnante in Ungheria, fu regina di Polonia e Lituania. Portò a compimento l’evangelizzazione di queste terre, che la venerano come patrona. Giovanni Paolo II l’ha proclamata “santa” l’8 giugno 1997 a Kraków, in Polonia.
Patronato: Polonia e Lituania
Etimologia: Edvige = ricca guerriera, o fortuna in battaglia, dal tedesco
Emblema: Corona, Scettro, Giglio di Francia
Martirologio Romano: A Cracovia in Polonia, santa Edvige, regina, che, nata in Ungheria, ricevette il regno di Polonia e, sposatasi con il granduca lituano Iaghellone, che prese al battesimo il nome di Ladislao, seminò insieme al marito la fede cattolica in Lituania.
L’8 giugno 1997 a Kraków, in Polonia, Giovanni Paolo II canonizzò dinnanzi ad una folla oceanica la prima regina della sua nazione, Jadwiga (Edvige), appartenete come ricordò il papa alla “gloriosa stirpe degli Angioini”, dunque di sangue capetingio.
Con lei si aprì il “secolo d’oro” della storia cristiana della Polonia, cioè il XIV secolo. Fonti storiche risalenti a quel tempo permettono di delinearne un profilo alquanto dettagliato e di ammirare al meglio la sua personalità e la sua spiritualità. Edvige è presentata solitamente nell’atto di “regnare servendo”, comportamento che ne fa immediatamente risaltare la sua maturità cristiana, fondata su una vita impregnata di fede e di carità.
Nei suoi confronti è riscontrabile inoltre un’ininterrotta ammirazione da parte del popolo polacco, accompagnata ad un vero e proprio culto ancora vivo oggi a distanza di secoli.
In Edvige vi era un intreccio di doti e virtù, religiosità e devozione, e tutto ciò contribuiva ad irradiare santità in ogni sua attività quotidiana. Dalla sua profonda ascesi cristiana, scaturì un giusto autocontrollo volto a dominare il suo carattere forte e vivace.
Nata a Buda nel 1374, dalla stirpe capetingia degli Angioini a quel tempo regnati sull’Ungheria, dovette appena maggiorenne annullare gli “sponsalia de futuro” stipulati dai suoi genitori quando lei aveva solo quattro anni, com’era tipica prassi medievale, per combinare un matrimonio con Guglielmo d’Asburgo.
Il 18 febbraio 1386 sposò invece il granduca lituano Jagello, che promise di ricevere il battesimo insieme con tutta la sua nazione, ultimo baluardo pagano in Europa, nonché l’unificazione alla Polonia. Pare che Edvige sia giunta a prendere una decisione così importante per la sua vita a seguito di un lungo travaglio interiore, intense preghiere dinnanzi al Crocifisso di Wawel e parecchie consultazioni con vescovi e nobili polacchi.
Questo matrimonio cambiò la storia europea, trasferendo la frontiera della civiltà occidentale sino ai confini orientali del neonato regno polacco-lituano e ponendo nella schiera dei protagonisti dell’evangelizzazione del vecchio continente. Ciò le avrebbe sicuramente meritato da parte delle Chiese orientali il titolo di “Isapostola”, come le sante Maria Maddalena, Olga di Kiev, Elena madre di Costantino il Grande e Nino di Georgia. Per noi cattolici può essere invece considerata come la regina di Brigida di Svezia “patrona d’Europa”, come ha osservato il papa nell’omelia in occasione della canonizzazione.
Aperta la strada alla cristianizzazione della Lituania, si rese necessario fornire un’adeguata formazione religiosa. A tal scopo Edvige decise di fondare a Praga un collegio per i futuri sacerdoti lituani. Nel documento protocollare dell’atto di fondazione, lei stessa spigò come tale fondazione fu preceduta da lunghe consultazioni ed intense preghiere.
Ritenendo che anche l’Università di Cracovia dovesse collaborare all’opera di evangelizzazione, l’11 gennaio 1397 con il consenso del papa Bonifacio IX fondò la prima Facoltà Teologica polacca. La regina ebbe così a cuore questa sua opera tanto da lasciarvi in testamento le sue gemme ed altri beni personali per anche dopo la sua morte avesse potuto crescere e funzionare al meglio. Queste operazioni, apparentemente pure espressioni di mecenatismo, furono in realtà il frutto della sua fede matura e lungimirante.
Sin dalla sua infanzia Edvige era stata a leggere abitualmente la Sacra Scrittura, il Salterio, le Omelie dei Padri della Chiesa, le meditazioni e le orazioni di San Bernardo, i Sermoni e le Passioni dei Santi ed altre opere religiose classiche. Alcune di esse vennero tradotte su sua iniziativa in lingua polacca e fece redigere un salterio in tre versioni linguistiche, denominato “Salterio Floriano”, oggi custodito nella Biblioteca Nazionale di Varsavia.
Giovanni Štìkna, Stanislao di Scarbimiria ed Enrico di Bitterfeld, guide spirituali di grande pregio, furono messi a disposizione degli ecclesiastici, dei cortigiani e degli uomini di cultura, assicurando loro in tal modo non solo una formazione culturale.
Edvige esigeva infatti dal clero un alto livello sia spirituale e che culturale.
In quei tempi, in cui vi fu un amalgamazione di varie credenze, dottrine e prassi, spesso provenienti dal mondo pagano, Edvige si rivelò sempre fedele alla tradizione ed in profonda comunione con la Sede Apostolica. Al tempo stesso si dimostrò tollerante nei confronti delle altre confessioni cristiane e delle altre religioni. In tale direzione va citato l’esempio della fondazione della chiesa e del convento dei Benedettini slavi a Cracovia, che avrebbero dovuto recarsi nella Rus’Rossa per celebrare la liturgia nel rito slavo, per giungere pacificamente ad un riavvicinamento fra i differenti culti. In qualità di sovrana cristiana, seppe testimoniare la sua fede con irrepetibile sensibilità; per esempio, per ravviare il culto nella cattedrale di Cracovia, fondò nel 1393 il “Collegio dei 16 Salmisti”, perché giorno e notte potesse risuonarvi la gloria di Dio.
In occasione del Giubileo dell’Anno Santo 1390, desiderando poter avvicinare tutti i suoi sudditi, polacchi, lituani e ruteni, ai frutti spirituali della Chiesa, ma ben conscia degli enormi disagi di natura politica e sociale ai quali sarebbero stati esposti in pellegrinaggio per Roma, chiese ed ottenne dal papa Bonifacio IX la grazia di poterlo celebrare nel proprio paese.
Incoronata “Regina della Polonia”, con il passare del tempo prese parte sempre più attivamente agli affari pubblici dello suo stato, rivelando sempre più la sua prudenza e saggezza politica. Dal 1389 si trovò ripetutamente a dover fare da mediatrice nei rapporti conflittuali fra la Polonia e l’Ordine teutonico, nonché in varie rivalità familiari.
Consapevole dell’immane pericolo che i Turchi costituivano per l’Europa cristiana, Edvige tentò di dissuadere l’ambizioso duca lituano Vitoldo dal disperdere le forze dell’esercito polacco-lituano in un’inutile spedizione bellica contro i Tartari.
Ma gli affari dello stato non le impedivano di soccorrere i suoi sudditi nei loro bisogni quotidiani. Ciò è testimoniato anche dai registri dei conti reali. In Edvige è sicuramente da sottolineare l’acuto senso, non solamente di giustizia, ma di rispetto per ciascun essere umano. Un episodio in particolare dimostra inequivocabilmente la fermezza che la contraddistinse sempre nel difendere i deboli e gli oppressi. Nel 1386, avendo appreso che gli abitanti di un villaggio erano stati privati dei loro beni da parte dei cavalieri reali, ordinò che fossero risarciti non solo i danni materiali, ma, preoccupata della ferita provocata alla loro dignità umana, affermò con dolore: “Se pure abbiamo restituito il bestiame ai coloni, chi restituirà loro le lacrime?”. Questa domanda, tramandataci dai cronisti del tempo, pone in rilievo il suo “genio del cuore”, al punto che Konrad Górski, storico della spiritualità polacca, l’ha definita “l’espressione più profonda della cultura cristiana”.
Solita contemplare l’immagine del Crocifisso Nero di Wawel, la santa regina attingeva amore e forza per regnare servendo, lo slancio missionario, l’umiltà di cuore, l’altruismo e la pace nel soffrire e nell’agire. Diverse fonti ricordano come fosse solita assistere alla Messa nei giorni feriali, anche durante i suoi viaggi.
La croce l’accompagnò sempre nel suo pellegrinaggio terreno, anche nelle circostanze più difficili: la morte prematura del padre, il distacco dalla casa paterna a Buda, l’incoronazione a Regina all’età di dieci anni in un regno a lei ignoto, la rassegnazione circa i falliti progetti matrimoniali dell’infanzia, la tragica morte della madre nel 1387 e dell’ultima sorella nel 1395, le calunnie diffuse nei suoi riguardi nelle corti europee, il tentativo di creare discordia fra lei e suo marito Ladislao Jagello più anziano di lei. Ma in tutte le numerose e complesse difficoltà politiche e umane in cui venne a trovardi, Edvige seppe sempre prodigarsi con tutto l’amore possibile.
Una di queste fu rappresentata dalla lunga attesa dell’erede al trono. Nel Medioevo, infatti, la sterilità della donna era considerata un segno del castigo divino: Edvige dunque ne soffriva, tanto più che sperava di rafforzare l’unione polacco-lituana e di proseguire l’opera di cristianizzazione con la nascita di un figlio. La sofferenza fu interrotta solo per breve tempo dalla lieta novella della gravidanza. All’approssimarsi del parto Jagello era solito raccomandarle di addobbare sontuosamente la stanza del nascituro.
Grazie al noto cronista polacco Jan Dlugosz conosciamo lo stato d’animo della regina in questo periodo, tramite la sua risposta al re: “Da lungo tempo ho allontanato da me il fasto del secolo e non lo voglio seguire in prossimità della morte, che, abbastanza spesso, il parto è solito causare, ma piuttosto voglio piacere a Dio, il quale mi ha donato la fecondità, tolto l’obbrobrio della sterilità, non per lo splendore dell’oro e delle gemme, ma nella mansuetudine dell’umiltà”.
Purtroppo ebbe modo di gioire assai poco della sua maternità fisica, perché la neonata erede al trono Elisabetta Bonifacia morì in breve tempo. A distanza di quattro giorni, il 17 luglio 1399, si spense anche Edvige, alla giovanissima età di 25 anni e 5 mesi. Premurosa della sorte del coniuge, preoccupata per la solidità dello stato e per la continuità della dinastia Jagellonica, prima di morire consigliò al marito di sposare Anna di Cilli, figlia del Guglielmo e nipote del re San Casimiro il Grande.
Nonostante la grande venerazione tributatale spontaneamente dal popolo polacco, vi sono voluti ben sei secoli per giungere al riconoscimento ufficiale del suo culto con la canonizzazione.
Il passo necessario per arrivare a tale traguardo è stato il riconoscimento da parte della Congregazione delle Cause dei Santi di una guarigione miracolosa da “otomastoidite purulenta destra cronicizzata con ipoacusia a labirintito”, che ha visto quale protagonista la signora Anna Romiszowska. Nata a Varsavia il 10 marzo 1924, all’età di 2 anni, dopo una scarlattina, si verificò un primo episodio flogistico all’orecchio destro. Nel dicembre 1949, all’età di 26 anni, a seguito di un’angina, fu nuovamente colpita al medesimo organo da una otite acuta, che venne curata con la penicillina. Assai poco giovamento poté trarre la paziente da questo trattamento, a causa della comparsa di un acuto dolore in sede retroauricolare e stato febbrile. Fu trattata con i raggi ultravioletti e poi ricoverata nella clinica otoiatrica dell’Università di Varsavia, ove rimase ben due settimane. In seguito al ricovero si manifestò un’otorrea purulenta. Gli accertamenti radiologici rilevarono un’osteite dell’apofisi mastoidea. Per i numerosi rischi dell’intervento e dell’anestesia la signora Romiszowska fu curata con la penicillina, ma peggiorò per la comparsa di vertigini e senso di nausea. Fu sottoposta a nuovi e più approfonditi esami, che confermarono l’otomastoidite purulenta con chiara sofferenza uditiva e vestibolare, vertigini e vomito. Temendo delle complicazioni endocraniche, alla paziente fu prescritto l’intervento chirurgico della trapanazione del cranio. Il 16 agosto 1950 la fu ricoverata nella Clinica Otorinolaringoiatrica dell’Università di Cracovia, per essere operata il giorno seguente. All’indomani la paziente riferì un improvviso netto miglioramento. Venne dunque sottoposta a nuovi accertamenti radiologici e otofunzionali, che esclusero definitivamente la necessità dell’intervento. La paziente, guarita, fu dimessa già il 18 agosto. Fu successivamente sottoposta a nuovi controlli, che evidenziarono una piccola perforazione, tessuto di granulazione e un deciso miglioramento degli esami.
La guarigione avvenne dunque in poche ore il 17 agosto 1950, nel quarto giorno della novena all’allora Beata Edvige, nella quale la paziente coinvolse l’intera sua famiglia, in cui il culto della regina era vivo da ben tre generazioni. Inoltre durante la novena la malata applicò sulla parte dolente un pezzo di stoffa in cui erano state avvolte le ossa della beata il 14 luglio 1949 in occasione dell’esumazione, del riconoscimento e della traslazione delle reliquie nel nuovo sarcofago nella Cattedrale di Cracovia.
Il 19 dicembre 1996 la Consulta Medica predisposta dalla congregazione vaticana dichiarò all’unanimità tale guarigione come estremamente rapida, definitiva e scientificamente inspiegabile. Il 7 febbraio 1997 anche tutti i membri teologi espressero voto affermativo riguardo a questa guarigione, riconoscendone la preternaturalità ed attribuendola all’intercessione della Beata Edvige. Il 4 marzo seguente giunsero alla medesima conclusione i Cardinali, gli Arcivescovi e i Vescovi chiamati ad esprimersi.
Jadwiga poté così essere elevata agli onori degli altari con il titolo di “santa”.
Autore: Fabio Arduino
Un altro sposo che fu Vescovo e padre di un Vescovo!!! E poi una intera famiglia di Santi martiri, santa Sinforosa, moglie di san Getulio Martire, con sette suoi figlioli, cioè Crescente, Giuliano, Nemesio, Primitivo, Giustino, Statteo ed Eugenio.
Metz (?) (Francia), ca. 582 - Remiremont (Francia), 18 luglio 640-641
Di nobile famiglia, ebbe cariche amministrative sotto il re dell'Austrasia, Teodeberto. Si sposò ed ebbe due figli, uno dei quali fu Clodolfo, vescovo di Metz, mentre l'altro, Ansegiso, fu il primo dei grandi " maestri di palazzo " e quindi antenato dei Carolingi. Dopo aver riunito l'Austrasia ala neustrasia, benché laico, venne eletto vescovo, mantenendo la sua carica di consigliere a corte e di educatore del futuro re Dagoberto. Si dedicò comunque ad un'intensa attività pastorale. Dopo aver partecipato a due Concili, desideroso di una vita ascetica, finalmente ottenne da Dagoberto il permesso di entrare ad Habend, nella fondazione monastica di Romarico, un suo amico conte palatino che vi si era a sua volta ritirato.
Etimologia: Arnolfo = forte e astuto, dal tedesco
Emblema: Bastone pastorale
Martirologio Romano: A Metz in Austrasia, ora in Francia, sant’Arnolfo, vescovo, che fu consigliere di Dagoberto, re di Austrasia e, lasciato l’incarico, condusse vita eremitica sui monti Vosgi.
Arnolfo vescovo, temendo di non ottenere il perdono dei peccati, gettò il suo anello nel fiume Mosella, dicendo: “Signore, se mi perdoni, fammelo ritrovare”. E lo ritrovò nel ventre di un pesce’. Pura leggenda, ma con buoni appigli nella realtà: al tempo di Arnolfo è veramente difficile non peccare, specie se si sta in alto. La Gallia, dominata dai Franchi, è divisa in diversi regni che si combattono con tutte le armi: congiure, massacri familiari, corruzione. Un imbroglione famoso, per esempio, è il vescovo Egidio di Reims, che sarà degradato ed espulso.
La famiglia di Arnolfo dev’essere importante, perché lui studia, sposa un’aristocratica da cui ha due figli ed entra al servizio di Teodeberto II, re dell’Austrasia (la regione che comprende Alsazia, Lorena e una parte del Belgio, con capitale Metz), che prima ha regnato sotto la tutela della nonna Brunilde e poi, nel 599, l’ha cacciata brutalmente. Ma nel 613 Teodeberto viene sconfitto e ucciso da Teodorico II di Borgogna, che è suo fratello. Costui però muore, sempre nel 613, e l’Austrasia viene unita alla Neustria (Gallia occidentale) e alla Borgogna, sotto il governo di re Clotario II. Il quale fa uccidere la vecchia Brunilde in modo atroce.
In questo clima vive Arnolfo. Re Clotario, con il suo regno tanto vasto e tanto traballante, lo prende come consigliere. E affida ad Arnolfo (con un altro futuro santo, Pipino di Linden) l’educazione di suo figlio Dagoberto. Questi sarà guidato dai due futuri santi anche agli inizi del suo regno. (E morirà poi nel suo letto, senza commettere atrocità e ammazzare parenti prossimi).
Non basta: ancora nel 614, Arnolfo viene nominato vescovo di Metz, conservando gli incarichi a corte. Non è il primo padre di famiglia chiamato a questo ministero: all’epoca la disciplina del celibato ecclesiastico non ha ancora un’applicazione rigorosa e del tutto definita. (Della moglie di Arnolfo, che si chiama Doda, a quest’epoca non si hanno più notizie). Come capo della diocesi, Arnolfo risulta presente ai concili nazionali di Clichy e di Reims, e Metz lo ricorderà tra i suoi grandi vescovi.
Ma lui a un certo punto lascia tutto: vescovado e incarichi a corte. Sparisce da Metz nel 627, dopo aver strappato il consenso a Dagoberto, e va a nascondersi dove non lo conosce nessuno. Entra in un monastero fondato dall’amico suo Romarico, un altro che ha lasciato perdere la corte e il re. (Da Romarico prenderà il nome la cittadina sorta più tardi sul luogo: Remiremont). Qui Arnolfo vive i suoi anni più sereni, qui si sente davvero realizzato. E qui trova riposo da morto, anche se per poco: la città di Metz reclama il suo corpo, e lo accoglie solennemente, deponendolo nella basilica che porterà per sempre il suo nome.
Autore: Domenico Agasso Fonte: Famiglia Cristiana
Emblema: Palma
Martirologio Romano: A Roma al nono miglio della via Tiburtina, commemorazione dei santi Sinforosa e sette compagni, Crescente, Giuliano, Nemesio, Primitivo, Giustino, Stacteo ed Eugenio, martiri, che subirono il martirio con diversi generi di tortura, divenendo fratelli in Cristo.
Santa Sinforosa era la moglie di San Getulio.
Sulla via Tiburtina, al IX milliario (oggi km. 17,450) viveva una donna chiamata Sinforosa con i suoi 7 figli che si chiamavano Crescente, Giuliano, Nemesio, Primitivo, Giustino, Statteo ed Eugenio.
La donna viveva nei pressi della maestosa villa dell’imperatore Adriano, colui che aveva ordinato la morte del marito Getulio, del cognato Amanzio e dell’amico di questi Primitivo.
L’imperatore Adriano dopo aver ultimato la sua grandiosa villa, si dice che volesse, prima di inaugurarla, consultare gli dei, i quali gli dissero, che la vedova Sinforosa e i suoi sette figli, li “straziavano ogni giorno invocando il suo Dio, perciò, se Sinforosa e i suoi figli sacrificheranno per loro, essi faranno quanto l’imperatore gli chiedeva”. Adriano allora, chiamò il prefetto Licinio, e ordinò che Sinforosa fosse insieme ai suoi figli arrestata e condotta al tempio di Ercole.
Poi con lusinghe, con minacce e con ricatti, cercò di farla desistere e a sacrificare agli idoli, ma la Santa con animo nobile si appella all’esempio di Getulio e degli altri compagni di martirio del marito. Visto che la donna non si piegava ai suoi voleri, l’imperatore rinnovò di sacrificare insieme ai suoi figli agli dei pagani, oppure sarebbero stati sacrificati essi stessi, ma la Santa fu irremovibile, come pure lo fecero i suoi sette figli.
L’imperatore, visto vano ogni tentativo, ordinò che Santa Sinforosa fosse torturata a sangue. Dalla tortura però l’imperatore non ci ricavò nulla, e spazientito da quella resistenza, diede ordine alle guardie di legare un grosso sasso al collo di Sinforosa, e di gettarla nel fiume Aniene, affinché annegasse.
Poi venne la volta dei figli; furono presi da parte, e l’imperatore chiese a loro di sacrificare agli dei. Vista la resistenza dei ragazzi, ordinò che fossero condotti anch’essi al tempio di Ercole, dove con minacce e con lusinghe tentava condurli dalla sua parte; ma visto che non ci riusciva, ne con le buone e ne con le cattive, l’imperatore ordinò che tutti e sette fossero posti alla tortura, ed infine fossero trafitti con la spada, poi li fece gettare in una fossa comune e profonda del territorio tiburtino, che i pontefici chiamarono “ai sette assassinati”.
Dopo circa 2 anni, essendosi calmato il furore delle persecuzioni contro i cristiani, il fratello della martire Sinforosa, Eugenio “principalis curiae Tiburtinae”, ne raccolse i corpi e li seppellì “in suburbana eiusdem civitatis”.
Il giorno 18 luglio il M.R. riporta quanto segue: “A Tivoli santa Sinforosa, moglie di san Getulio Martire, con sette suoi figlioli, cioè Crescente, Giuliano, Nemesio, Primitivo, Giustino, Statteo ed Eugenio. La loro madre, sotto il Principe Adriano, per l’insuperabile costanza, prima fu lungamente percossa con guanciate, quindi sospesa per i capelli, e da ultimo legata ad un sasso, precipitata nel fiume; i figli poi, legati a pali e stirati cogli argani, con diverso genere di morte compirono il martirio. I loro corpi furono trasportati a Roma, e sotto il Papa Pio quarto, furono ritrovati nella Diaconia di sant’Angelo in Pescheria”.
La passio ci dice ancora che il “Natalis vero sanctorum martyrum Christi beatae Symphorosae et septem filiorum ejus Crescentis, Juliani, Nemesii, Primitivi, Justini, Stattei et Bugenii celebratur sub die XV Kalendas Augusti. Eorum corpora requiescunt in Via Tiburtina milliario ab Urbe nono…”.
Oggi noi consociamo una chiesa dedicata alla Santa nei pressi di Bagni di Tivoli. Durante le lotte per le investiture tra papato e impero, l’imperatore Enrico V nel ricondurre Papa Pasquale II a Roma, si accampò nel “Campo qui Septem fratum dicitur”, dove un tempo si vedevano dei ruderi di un’antica chiesa dedicata a Santa Sinforosa e sette figli, e dove i proprietari di questo terreno hanno eretto nel 1939, proprio sulla collinetta dinanzi al nuovo santuario, una magnifica cappella, dedicandola a questa Santa e ai suoi sette figli martiri.
Martirologio Romano: Nella cittadina di Liucun presso la città di Renqin sempre nello Hebei, santi martiri Elisabetta Qin Bianzhi e suo figlio Simone Qin Chunfu, di quattordici anni, che nella medesima persecuzione, forti nella fede, vinsero tutte le crudeltà dei nemici.
Consorte del principe Lazzaro dal 1353, madre del despota serbo Stefano La zarevic (1389-1402) e di numerose figlie, che furono date in sposa a personaggi delle più potenti corti del Balcani. Alla morte del marito divenne reggente della Serbia per conto del figlio Stefano.
Fondò il monastero di Ljubostinija, divenuto il centro dell'irradiazione del culto di san Lazzaro. In quello stesso luogo prese il velo nel 1393, assumendo il nome monastico di Eugenia, cambiato con quello di Eufrosina al momento della morte, quando ricevette il “grande schima” monacale. Fu sepolta nello stesso monastero; dalla sua tomba stillano gocce balsamiche. È festeggiata nelle Chiese Orientali il 19 luglio.
Autore: Giorgio Eldarov Fonte:Bibliotheca Sanctorum Orientalium
IX-X secolo
Insieme col marito, re Alfredo, fondò un monastero femminile a Winchester, nel quale, rimasta vedova (901), si ritirò morendovi nel 903. La sua festa è celebrata il 20 luglio.
Autore: Edward I. Watkin Fonte: Enciclopedia dei Santi
Martirologio Romano: Nel villaggio di Wuqiao Zhaojia sempre nello Hebei, commemorazione delle sante Maria Zhao Guozhi e delle sue figlie Rosa e Maria Zhao, che, in quella stessa persecuzione, si gettarono in un pozzo per non essere violentate, ma tirate fuori di lì subirono il martirio.
1869 circa – Majiazhuang, Weixian, Cina, 22 luglio 1900
Lucia Wang Wangzhi, madre di Andrea, nove anni, e di una bambina di cinque, è una dei martiri del villaggio cinese di Majiazhuang, nella provincia dello Hebei. Obbligata a scegliere tra l’aver salva la vita e la fede, scelse la seconda, anche per i suoi figli. Dopo essersi opposta al salvataggio di Andrea, perché temeva che venisse educato da pagano, assistette alla sua decapitazione, poi lei e la figlia subirono la stessa sorte. Insieme ai figli, è inclusa nel gruppo dei 119 martiri cinesi che furono canonizzati a Roma il 1 ottobre 2000.
Martirologio Romano: In località Majiazhuang vicino a Daining nella provincia dello Hebei in Cina, santi martiri Anna Wang, vergine, Lucia Wang Wangzhi e suo figlio Andrea Wang Tianqing, uccisi per il nome di Cristo nella persecuzione dei Boxer.
Lucia Wang nata Wang (il suffisso –zhi indica il cognome di nascita) viveva nel villaggio cinese di Majiazhuang, nella provincia dello Hebei, quando rimase coinvolta nella rivolta dei Boxer, che vedeva nel Cristianesimo un pericolo sociale. Aveva due figli, Andrea, di nove anni, e una bambina di cinque, di cui non ci è giunto il nome.
Quando i Boxer arrivarono a Majiazhuang, anzitutto incendiarono la chiesa del villaggio. Il capo della squadriglia pose gli abitanti del villaggio di fronte all’alternativa fra apostatare o affrontare la morte, poi andò via coi suoi uomini. Lucia e i suoi bambini, quindi, si rifugiarono nella scuola del villaggio, custodita dall’anziano Giuseppe Wang Yumei, e vennero raggiunti da una ragazzina che in quella scuola aveva studiato, Anna Wang. Il maggior conforto di cui potevano godere i rifugiati era la celebrazione della Messa, all’alba, grazie a un padre missionario.
I roghi appiccati dai Boxer, però, si facevano sempre più vicini. Quando i soldati arrivarono, Giuseppe disse a tutti di rifugiarsi nel sotterraneo della scuola; lui avrebbe cercato di sviare gli aggressori accogliendoli sull’ingresso principale. Dato che si rifiutava di parlare, il capo ordinò di sparare contro le finestre dell’edificio: il fragore dei vetri spaventò i bambini, che, urlando, fecero scoprire il nascondiglio. Tutti i presenti vennero quindi costretti a salire su di un carro e condotti al villaggio dov’era il quartier generale dei Boxer. Lucia cercò di ragionare con i soldati, facendo loro notare che nessuno aveva fatto nulla di male, ma alla fine desistette, per non aggravare la situazione, già critica di suo.
Verso sera, alla luce delle fiaccole, i prigionieri vennero sottoposti ad un interrogatorio. Mentre i bambini, giustamente impauriti, piangevano, la donna rispose: «La religione cristiana non insegna che a far del bene a tutti, perché basata sull’amore. Noi quindi, che l’abbiamo abbracciata perché persone di buona volontà, non meritiamo la maledizione, perché siamo, anzi, nelle migliori condizioni di ubbidire alle leggi quali vere donne e madri cinesi, che fanno onore alla patria». Le sue parole non vennero tenute in considerazione, come pure quelle di Giuseppe, che, anzi, venne colpito alla gola da una lancia e decapitato.
Dato che i prigionieri inorridivano, ma non si smuovevano, i persecutori adottarono un sistema per farli cedere: separarono i figli dalle madri, poi li condussero in una saletta adiacente a due stanze. Una, situata ad ovest, era indicata da un cartello con scritto “Liberazione”, dove i soldati avevano ammassato giocattoli, ventagli e altre mercanzie; se vi fossero entrati, sarebbero stati salvati. L’altra, a est, era contrassegnata dalla scritta “Morte”.
Di fronte alla perplessità dei piccoli, venne deciso di far venire alcune delle donne e di porle di fronte alla medesima scelta. Lucia e i suoi bambini scelsero di restare fedeli a quanto credevano, così, insieme a quanti non avevano apostatato, subirono una nuova minaccia: tornare alla religione dei padri, o essere sepolte vive insieme ai figli. Venne loro concessa una notte di riflessione, che trascorsero, invece, in preghiera, guidati dalla giovane Anna Wang.
L’indomani, il 22 luglio 1900, donne e bambini vennero condotti in uno spiazzo, dove erano state preparate delle fosse. Prima avevano subito un nuovo interrogatorio a cui non risposero, perché incoraggiate dallo sguardo di Anna. I soldati dissero loro che, se fossero rimaste ostinate nel loro proposito, sarebbero dovute entrare nelle fosse insieme ai figli. Le donne avanzarono, ma la ragazza suggerì loro, a voce bassa, d’inginocchiarsi rivolte verso la chiesa del villaggio. Il capo, allora, ordinò che tutte venissero colpite con la spada, a cominciare dalle più anziane, e spinte nelle buche.
Venuto il turno di Lucia, il capo dei Boxer cercò di convincerla a rinnegare la fede facendo leva proprio sui suoi figli. Ella ribatté: «Io sono cattolica, e cattolici sono pure questi miei figlioletti. Se voi uccidete me, per la mia fede, sopprimete anche loro».
Dopo queste parole, Andrea scoppiò a piangere e a lamentarsi di aver sete. Un soldato, allora, tagliò a metà un cocomero giallo, così poté almeno rinfrescargli le labbra. Al vedere quella scena, l’uomo si rivolse al capo per chiedergli di poter tenere lui il bambino. Ma Lucia, al pensiero che il figlio avrebbe potuto aver salva la vita, però sarebbe stato educato da pagano, si oppose: «Io sono cristiana», ripeté, «e anche mio figlio. Uccideteci entrambi, ma lui per primo e io per ultima!».
Andrea, quindi, gettò via il frutto e si preparò a morire. Con un sorriso, salutò Lucia per l’ultima volta, poi chinò il collo per venire decapitato; immediatamente dopo, fu il turno della mamma e della sorella. Tutti e tre vennero seppelliti nella medesima fossa. Dopo di loro fu il turno di altre madri e figli, il più piccolo dei quali aveva appena dieci mesi.
Il 6 novembre 1901, a quindici mesi di distanza, le fosse vennero disseppellite, per concedere ai martiri una sepoltura conveniente. Con gran meraviglia degli astanti, i cadaveri vennero ritrovati confusi, ma con le membra e le teste intatti.
La causa di canonizzazione per Lucia Wang Wangzhi venne inserita in quella del gruppo capeggiato dal gesuita padre Leone Ignazio Mangin e composto in tutto da cinquantasei martiri. Il riconoscimento del loro martirio venne sancito il 22 febbraio 1955. Il 17 aprile dello stesso anno, domenica “in albis”, si svolse invece la beatificazione. La canonizzazione del gruppo, inserito nel più ampio elenco dei 119 artiri cinesi, avvenne invece il 1 ottobre 2000.
Autore: Emilia Flocchini
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† Zhoujiahe, Cina, 20 luglio 1900
Martirologio Romano: Nel villaggio di Zhoujiahe presso la città di Yingxian nella provincia dello Hebei in Cina, martirio dei santi Leone Ignazio Mangin e Paolo Denn, sacerdoti della Compagnia di Gesù, che nella persecuzione dei Boxer, mentre incoraggiavano premurosamente i fedeli in chiesa, furono trafitti davanti all’altare dai nemici che avevano fatto irruzione. Insieme a loro perì santa Maria Zhou Wuzhi, che, volendo proteggere con il proprio corpo san Leone ministro della celebrazione, cadde ferita a morte.
Storia di Maria Zhu-Wu, la santa cinese che morì per far scudo col suo corpo al prete confessore
Settembre 2, 2015 Marc Lindeijer
La vicenda della donna che col suo coraggio aiutò gli abitanti del suo villaggio durante la rivolta dei boxer e l’orrendo massacro dei cristiani
Articolo tratto dall’Osservatore romano – Zhujiahe è un piccolo villaggio situato nella vasta pianura grigia della Cina settentrionale, al confine tra le province di Zhili e Shandong. Tradotto, il nome significa “fiume della famiglia Zhu”. Diversi membri di quella famiglia si erano convertiti al cattolicesimo durante il XVIII secolo, quando i gesuiti da Beijing si erano inoltrati nella provincia di Zhili. All’inizio del XIX secolo la famiglia Zhu si era stabilita vicino al fiume, dandogli il suo nome. Nel 1900 il villaggio aveva circa 300 abitanti, che vivevano in basse casette di argilla, annidate tra irregolari distese di sorgo e dominate da una chiesa semplice, con il tetto piatto e un’alta facciata; dalla cima di quest’ultima, la croce sovrastava la campagna.
Pastore della comunità cattolica di Zhujiahe era il gesuita francese Léon-Ignace Mangin, quarantaduenne e missionario in Cina sin dal 1882. Nel villaggio era assistito da un saggio di mezz’età, Zhu Dianxuan, abile amministratore e molto versato anche nell’arte della guerra. Sua moglie cinquantenne, Maria Zhu-Wu, era molto stimata dagli abitanti del villaggio: donna gentile di grande fede, nel suo servizio a Dio dava la priorità all’assistenza ai poveri. Senza mai cercare fama né gloria, queste tre persone si sarebbero trovate al centro del massacro di cristiani più violento avvenuto durante la rivolta dei boxer.
Non occorre spiegare qui la storia della rivolta, né le macchinazioni politiche e la guerra che l’avevano innescata. Avevano poca importanza per gli abitanti di Zhujiahe quando, nell’estate del 1900, avevano accolto migliaia di rifugiati cattolici dai villaggi vicini. Ciò aveva portato la popolazione a 3000 abitanti, vale a dire dieci volte più di quelli abituali, quando il 17 luglio furono attaccati da 4500 uomini ben armati, le forze congiunte dei boxer e dell’esercito imperiale. Pochi giorni prima, gli abitanti del villaggio, protetti dalle fortificazioni costruite da Zhu Dianxuan, erano ancora riusciti a respingere gli attacchi e perfino a conquistare un cannone del nemico. Padre Mangin e il suo confratello gesuita Paul Denn, anche lui rifugiato a Zhujiahe, avevano celebrato la messa ogni mattina e ascoltato confessioni per tutto il giorno; la sera avevano dato il cambio alle guardie sui bastioni. Il giorno seguente, Zhu Dianxuan, l’unico leader esperto tra i mille e più uomini in grado di difendere il villaggio, si arrampicò sui bastioni per usare il cannone contro le forze nemiche. Ma quella sera stessa, quando ormai oltre la metà dei suoi uomini era morta in battaglia, il cannone esplose sul petto di Zhu Dianxuan. Mangin, che si trovava lì vicino, corse dall’uomo morente e gli diede l’estrema unzione. Il terzo giorno, quando la situazione ormai apparve senza speranza, quanti potevano fuggire lo fecero, lasciando indietro chi era troppo debole per farlo, specialmente donne e bambini.
Quando la mattina presto del 20 luglio i soldati presero il villaggio, le prime persone che uccisero furono un gruppo di vergini della parrocchia e di catechiste. Colti dal panico, ottantacinque tra donne e bambini fuggirono verso l’orfanotrofio, dove saltarono nel pozzo, morendovi affogati o soffocati. Pare che il loro pianto e le loro grida si siano sentiti per due giorni.
La maggior parte degli abitanti del villaggio, circa mille, si era rifugiata nella chiesa, assistita spiritualmente dai due sacerdoti gesuiti. Troppo pressati per celebrare un’ultima messa, Mangin e Denn si sedettero sui gradini dinanzi all’altare ad ascoltare confessioni, mentre la maggior parte delle persone era inginocchiata in preghiera o semplicemente attendeva. Maria Zhu-Wu, presumibilmente in lutto per il marito, rimase però calma, esortando tutti a confidare in Dio e a pregare la Madre celeste. Verso le nove del mattino, gli aggressori sfondarono la porta e iniziarono a sparare a caso all’interno della chiesa, fino a quando non fu piena di fumo. Si diffuse il panico mentre la gente veniva uccisa, ma i sacerdoti riuscirono a unirla in preghiera, recitando insieme il Confiteor e l’atto di contrizione, poi diedero l’assoluzione generale mentre le armi continuavano a sparare sulla gente.
Qui Maria Zhu-Wu assurse a particolare grandezza: si alzò e si mise con le braccia tese davanti a padre Mangin per fargli scudo con il proprio corpo. Non molto tempo dopo, una pallottola la colpì ed ella cadde davanti alla balaustra dell’altare. Anche Mangin, sgranando il rosario con una mano e afferrando un crocifisso con l’altra, ben presto cadde vittima degli uomini armati. Poi i boxer sprangarono la chiesa e le diedero fuoco. La maggior parte di quanti si erano rifugiati al suo interno morì a causa del fumo inalato, gli ultimi — tra loro Mangin e Denn — finirono arsi quando, alla fine, il tetto della chiesa crollò. Solo 500 cattolici riuscirono a sopravvivere al massacro fuggendo o apostatando; pochi altri, principalmente donne, furono venduti come schiavi o condotti come prigionieri a Beijing, dove probabilmente finirono in qualche postribolo.
Ma Maria Zhu-Wu continua a vivere a Zhujiahe, il fiume della famiglia Zhu, trasformato in un fiume di sangue. Mentre suo marito aveva difeso il villaggio contro il nemico esterno, lei aveva rafforzato la fede e il coraggio interiore delle persone, sacrificando addirittura la propria vita per salvare il loro pastore. Nel 1955 Pio XII la proclamò beata, insieme ai due gesuiti e ad altri 53 martiri; tutti sono stati canonizzati nel 2000 da Giovanni Paolo II.
Marc Lindeijer (Paesi Bassi, 1966) ha studiato storia all’università cattolica di Nijmegen. È entrato nella Compagnia di Gesù nel 1994 ed è stato ordinato sacerdote nel 2002. Dal 2009 lavora presso la curia generalizia dei gesuiti come assistente del postulatore generale.
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circa 600 – 668
Nacque all'inizio del VII secolo nei pressi di Verdun, nella Francia orientale. Ufficiale a corte, si sposò, ma nel 628, d'accordo con la moglie, si separò ed entrambi intrapresero la vita religiosa. Divenne monaco a Montfaucon sotto la guida di san Balderico, ma ben presto si ritirò a vivere in solitudine a Saint-Ursitz fra le montagne del Giura. Trascorse un periodo di tempo al monastero di San Colombano a Bobbio nel Nord Italia, poi si trasferì all'abbazia di Romani-Moutier, dove ricevette l'ordinazione dall'arcivescovo di Rouen, Sant'Audoeno. Tradusse la sua ricchezza spirituale nella fondazione della nuova abbazia di Fontanelle in Normandia. Sotto la sua guida, i monaci seguirono la "regola" di san Colombano. Morì nel luglio 668 (o secondo altre fonti nel 657). (Avvenire)
Etimologia: Vandregisilo = difensore forte, dall'antico tedesco
Martirologio Romano: Nel monastero di Fontenelle in Neustria, in Francia, san Vandregesilo, abate, che, lasciata la corte del re Dagoberto, condusse in vari luoghi vita monastica e, elevato al sacerdozio da sant’Audoeno di Rouen, fondò e resse un monastero nella selva di Jumièges.
San Vandregisilo (in francese Wandrille) nacque nei pressi di Verdun, nella Francia orientale, verso l’inizio del VII secolo. Fu ufficiale a corte e si sposò, ma nel 628 di comune accordo con la moglie si separarono per intraprendere la vita religiosa. Il marito divenne monaco a Montfaucon sotto la guida di San Balderico, ma ben presto si ritirò a vivere in assoluta solitudine a Saint-Ursitz fra le montagne del Giura. Pare che abbia subito l’influenza delle pratiche ascetiche dei monaci irlandesi, in particolare San Colombano ed il suo discepolo Sant’Ursicino, che aveva operato nella zona fondandovi vari monasteri. Vandregisilo divenne celebre per l’austerità che contraddistingueva la sua vita. Trascorse un periodo di tempo al monastero di San Colombano a Bobbio nel nord Italia, poi si trasferì all’abbazia di Romani-Moutier, nella subregione savoiarda della Tarantasia, sulle rive del torrente Isère. Qui trascorse all’incirca dieci anni e ricevette l’ordinazione dall’arcivescovo di Rouen Sant’Audoeno.
Sfruttò questa varietà di esperienze per fondare la nuova abbazia di Fontanelle in Normandia, la cui chiesa fu aperta al culto nel 657. Sotto la guida del fondatore, i monaci seguirono la “regola” di San Colombano, gettando le basi per la futura crescita dell’abbazia, che infatti divenne uno dei monasteri più apprezzati in Francia, importante centro di erudizione ed evangelizzazione. Prima di morire, nel luglio 668 (o secondo altre fonti nel 657), rassicurò i suoi monaci circa la prosperità del monastero qualora essi fossero rimasti fedeli alle tradizioni che egli aveva dato loro: “Il Signore sarà sempre tra voi e sarà il vostro conforto ed aiuto in ogni vostra necessità”.
Onde escludere un’eventuale profanazione da parte dei vichinghi, le reliquie del santo furono spartite fra diverse chiese, tra le quali l’abbazia di Mont-Blandin a Grand. Da qui la celebrazione della sua festa fu estesa all’Inghilterra, nel periodo anteriore alla conquista da parte di Guglielmo nel 1066.
Autore: Fabio Arduino
Finsta, Uppsala (Svezia), giugno 1303 – Roma, 23 luglio 1373
Compatrona d'Europa, venerata dai fedeli per le sue «Rivelazioni», nacque nel 1303 nel castello di Finsta, nell'Upplandi (Svezia), dove visse con i genitori fino all'età di 12 anni. Sposò Ulf Gudmarson, governatore dell'Östergötland, dal quale ebbe otto figli. Secondo la tradizione devozionale, nel corso delle prime rivelazioni, Cristo le avrebbe affidato il compito di fondare un nuovo ordine monastico. Nel 1349 Brigida lasciò la Svezia per recarsi a Roma, per ottenere un anno giubilare e l'approvazione per il suo ordine, che avrebbe avuto come prima sede il castello reale di Vastena, donatole dal re Magnus Erikson. Salvo alcuni pellegrinaggi, rimase a Roma fino alla sua morte avvenuta il 23 luglio 1373. La sua canonizzazione avvenne nel 1391 ad opera di Papa Bonifacio IX. (Avvenire)
Patronato: Svezia, Europa (Giovanni Paolo II, 1/10/99)
Etimologia: Brigida (come Brigitta) = alta, forte, potente, dall'irlandese
Martirologio Romano: Santa Brigida, religiosa, che, data in nozze al legislatore Ulfo in Svezia, educò nella pietà cristiana i suoi otto figli, esortando lo stesso coniuge con la parola e con l’esempio a una profonda vita di fede. Alla morte del marito, compì numerosi pellegrinaggi ai luoghi santi e, dopo aver lasciato degli scritti sul rinnovamento mistico della Chiesa dal capo fino alle sue membra e aver fondato l’Ordine del Santissimo Salvatore, a Roma passò al cielo.
Nel tardo Medioevo, sia in campo civile che in quello ecclesiastico, gli uomini si dilaniavano in lotte intestine, provocando guerre tra gli Stati e scismi nella Chiesa e mettendo a rischio la stessa sopravvivenza della civiltà cristiana, davanti al pericolo sempre incombente dei musulmani.
Dio allora suscitò donne come santa Brigida di Svezia e santa Caterina da Siena, contemporanee, che con il loro carisma cercarono di pacificare gli animi e di ricostruire l’unità della Chiesa, dando un contributo, sotto certi aspetti determinante, alla civiltà europea.
E giustamente sia s. Brigida patrona della Svezia (1303-1373), sia s. Caterina da Siena compatrona d’Italia (1347-1380), sono state proclamate compatrone dell’Europa, insieme a s. Benedetto da Norcia (470-547).
Sue origini e formazione
Brigida o Brigitta o Birgitta, nacque nel giugno 1303 nel castello di Finsta presso Uppsala in Svezia; suo padre Birgen Persson era ‘lagman’, cioè giudice e governatore della regione dell’Upplan, la madre Ingeborga era anch’essa di nobile stirpe.
In effetti Brigida apparteneva alla nobile stirpe dei Folkunghi e discendeva dal pio re cristiano Sverker I; ebbe altri sei fratelli e sorelle e le fu imposto il nome di Brigida, in onore di santa Brigida Cell Dara († 525), monaca irlandese, della quale i genitori erano devoti.
Dopo la morte della madre, a 12 anni fu mandata presso la zia Caterina Bengtsdotter, a completare la propria formazione; ancora fanciulla, Brigida dopo aver ascoltato una predica sulla Passione di Gesù, ebbe con Lui un profondo colloquio che le rimase impresso per sempre nella memoria.
Alla domanda: “O mio caro Signore, chi ti ha ridotto così?”, si sentì rispondere: “Tutti coloro che mi dimenticano e disprezzano il mio amore!”. La bambina decise allora di amare Gesù con tutto il cuore e per sempre.
Presso la zia, Brigida trascorse due anni, dove apprese le buone maniere delle famiglie nobili, la scrittura e l’arte del ricamo; durante questi anni non mancarono nella sua vita alcuni fenomeni mistici, come la visione del demonio sotto forma di mostro dai cento piedi e dalle cento mani.
Sposa e madre cristiana
A 14 anni, secondo le consuetudini dell’epoca, il padre la destinò in sposa del giovane Ulf Gudmarsson figlio del governatore del Västergötland; in verità Brigida avrebbe voluto consacrarsi a Dio, ma vide nella disposizione paterna la volontà di Dio e serenamente accettò.
Le nozze furono celebrate nel settembre 1316 e la sua nuova casa fu il castello di Ulfasa, presso le sponde del lago Boren; il giovane sposo, nonostante il suo nome, che significava ‘lupo’, si dimostrò invece uomo mite e desideroso di condurre una vita conforme agli insegnamenti evangelici.
Secondo quanto scrisse e raccontò poi la figlia s. Caterina di Svezia, al processo di canonizzazione, i due sposi vissero per un biennio come fratello e sorella nella preghiera e nella mortificazione; soltanto tre anni dopo nacque la prima figlia e in venti anni Brigida diede al marito ben otto figli, quattro maschi (Karl, Birger, Bengt e Gudmar) e quattro femmine (Marta, Karin, Ingeborga e Cecilia).
Nel 1330 il marito Ulf Gudmarsson fu nominato “lagman” di Närke e successivamente i due coniugi divennero anche Terziari Francescani; dietro questa nomina, c’era tutto l’impegno di Brigida, che gli aveva insegnato a leggere e scrivere e Ulf approfittando della spinta culturale della moglie, aveva approfondito anche lo studio del diritto, meritando tale carica.
Per venti anni Ulfasa fu il centro della vita di Brigida e tutta la provincia dell’Ostergötland divenne il suo mondo, il suo ruolo non fu solo quello di principessa di Närke, ma senza ostentare alcuna vanagloria, fu una ottima massaia, dirigeva il personale alle sue dipendenze, mescolata ad esso svolgeva le varie attività domestiche, instaurando un benefico clima di famiglia.
Si dedicava particolarmente ai poveri e alle ragazze, procurando a quest’ultime una onesta sistemazione per non cadere nella prostituzione; inoltre fece costruire un piccolo ospedale, dove ogni giorno si recava ad assistere gli ammalati, lavandoli e rammendando i loro vestiti.
In questo intenso periodo, conobbe il maestro Matthias, uomo esperto in Sacra Scrittura, di vasta cultura e zelante sacerdote; ben presto divenne il suo confessore e si fece tradurre da lui in svedese, buona parte della Bibbia per poterla leggere e meditare meglio; la sua presenza apportò a Brigida la conoscenza delle correnti di pensiero di tutta l’Europa, giacché don Matthias aveva studiato a Parigi, e tutto ciò si rivelerà utile per la conoscenza delle problematiche del tempo, preparandola alla sua futura missione.
Alla corte reale di Svezia
Quando però nel 1335, il re di Svezia Magnus II sposò Bianca di Dampierre, Brigida che era lontana cugina del sovrano, fi invitata a stabilirsi a corte, per ricevere ed assistere la giovane regina, figlia di Giovanni I, conte di Namur.
L’invito non si poteva respingere e quindi Brigida affidati due figlie e un figlio a monasteri cistercensi, lasciò temporaneamente la sua casa di Ulfasa e si trasferì a Stoccolma, portando con sé il figlio più piccolo, bisognoso ancora delle cure materne.
Ebbe grande influenza sui giovani sovrani e finché fu ascoltata, la Svezia ebbe buone leggi e furono abolite ingiuste ed inumane consuetudini, come il diritto regio di rapina su tutti i beni dei naufraghi, inoltre furono mitigate le tasse che opprimevano il popolo.
Poi man mano, mentre la regina cresceva, manifestando una eccessiva frivolezza favorita dalla debolezza del marito, Brigida si trovò messa da parte e la vita di corte divenne molto mondana.
A questo punto, senza rompere i rapporti con i sovrani, approfittando di momenti propizi e del lutto che l’aveva colpita con la morte nel 1338 del figlio Gudmar, Brigida lasciò la corte e se ne ritornò a casa sua, ritrovando nel castello di Ulfasa nella Nericia, la gioia della famiglia e della convivenza e con il marito si recò in pellegrinaggio a Nidaros per venerare le reliquie di sant’Olav Haraldsson (995-1030) patrono della Scandinavia.
Dalla vita coniugale allo stato religioso – L’esperienza mistica
Quando nel 1341 i due coniugi festeggiarono le nozze d’argento, vollero recarsi in pellegrinaggio a Santiago di Compostella; quest’evento segnò una svolta decisiva nella vita dei due coniugi, che già da tempo vivevano vita fraterna e casta.
Nel viaggio di ritorno, Ulf fu miracolosamente salvato da sicura morte grazie ad un prodigio e i due coniugi presero la decisione di abbracciare la vita religiosa, era una cosa possibile in quei tempi e parecchi santi e sante provengono da questa scelta condivisa.
Al ritorno, Ulf fu accolto nel monastero cistercense di Alvastra, dove poi morì il 12 febbraio 1344 assistito dalla moglie; Brigida a sua volta, avendo esaurito la sua missione di sposa e di madre, decise di trasferirsi in un edificio annesso al monastero di Alvastra, dove restò quasi tre anni fino al 1346.
Fu l’inizio del periodo più straordinario della sua vita; dopo un periodo di austerità e di meditazione sui divini misteri della Passione del Signore e dei dolori e glorie della Vergine, cominciò ad avere le visioni di Cristo, che in una di queste la elesse “sua sposa” e “messaggera del gran Signore”; iniziò così quello straordinario periodo mistico che durerà fino alla sua morte.
Ai suoi direttori spirituali come il padre Matthias, Brigida dettò le sue celebri “Rivelazioni”, sublimi intuizioni e soprannaturali illuminazioni, che ella conobbe per tutta la vita e che furono poi raccolte in otto bellissimi volumi.
Stimolatrice di riforme e di pace in Europa
Durante le visioni, Cristo la spingeva ad operare per il bene del Paese, dell’Europa e della Chiesa; non solo tornò a Stoccolma per portare personalmente al re e alla regina “gli ammonimenti del Signore”, ma inviò lettere e messaggi ai sovrani di Francia e Inghilterra, perché terminassero l’interminabile ‘Guerra dei Trent’anni’.
Suoi messaggeri furono mons. Hemming, vescovo di Abo in Finlandia e il monaco Pietro Olavo di Alvastra; un altro monaco omonimo divenne suo segretario.
Esortò anche papa Clemente VI a correggersi da alcuni gravi difetti e di indire il Giubileo del 1350, inoltre di riportare la Sede pontificia da Avignone a Roma.
La fondazione del nuovo Ordine religioso
Nella solitudine di Alvastra, concepì anche l’idea di dare alla Chiesa un nuovo Ordine religioso che sarà detto del Santo Salvatore, composto da monasteri ‘doppi’, cioè da religiosi e suore, rigorosamente divisi e il cui unico punto d’incontro era nella chiesa per la preghiera in comune; ma tutti sotto la guida di un’unica badessa, rappresentante la Santa Vergine e con un confessore generale.
Ottenuto dal re, il 1° maggio 1346, il castello di Vadstena, con annesse terre e donazioni, Brigida ne iniziò i lavori di ristrutturazione, che durarono molti anni, anche perché papa Clemente VI non concesse la richiesta autorizzazione per il nuovo Ordine, in ottemperanza al decreto del Concilio Ecumenico Lateranense del 1215, che proibiva il sorgere di nuovi Ordini religiosi.
Per questo già nell’autunno del 1349, Brigida si recò a Roma, non solo per l’Anno Santo del 1350, ma anche per sollecitare il papa, quando sarebbe ritornato a Roma, a concedere l’approvazione, che fu poi concessa solo nel 1370 da papa Urbano V.
L’Ordine del Ss. Salvatore, era costituito ispirandosi alla Chiesa primitiva raccolta nel Cenacolo attorno a Maria; la parte femminile era formata da 60 religiose e quella maschile da 25 religiosi, di cui 13 sacerdoti a ricordo dei 12 Apostoli con s. Paolo e 2 diaconi e 2 suddiaconi rappresentanti i primi 4 Padri della Chiesa e otto frati.
Riassumendo, ogni comunità doppia era composta da 85 membri, dei quali 60 suore che con i 12 monaci non sacerdoti rappresentavano i 72 discepoli, più i 13 sacerdoti come sopra detto.
Il gioco di numeri, rientrava nel gusto del tempo per il simbolismo, rappresentare gli apostoli e i discepoli, spingeva ad un richiamo concreto a vivere come loro erano vissuti; senza dimenticare che in quell’epoca non esisteva crisi vocazionale e ciò permetteva di raggiungere senza difficoltà il numero di monache e religiosi prescritto per ogni doppio monastero.
Roma sua seconda patria
Arrivata a Roma insieme al confessore, al segretario Pietro Magnus e al sacerdote Gudmaro di Federico, alloggiò brevemente nell’ospizio dei pellegrini presso Castel Sant’Angelo, e poi nel palazzo del cardinale Ugo Roger di Beaufort, fratello del papa, che vivendo ad Avignone, aveva deciso di metterlo a disposizione di Brigida, la cui fama era giunta anche alla Curia avignonese.
Roma non fece una buona impressione a Brigida, ne migliorò in seguito; nei suoi scritti la descriveva popolata di rospi e vipere, le strade piene di fango ed erbacce, il clero avido, immorale e trascurato.
Si avvertiva fortemente la lontananza da tanto tempo del papa, al quale descriveva nelle sue lettere la decadente situazione della città, spronandolo a ritornare nella sua sede, ma senza riuscirci.
Vedere l’Europa unita e in pace, governata dall’imperatore e guidata spiritualmente dal papa, era il sogno di Brigida e dei grandi spiriti del suo tempo.
Dopo quattro anni, si trasferì poi nella casa offertale nel suo palazzo, dalla nobildonna romana Francesca Papazzurri, nelle vicinanze di Campo de’ Fiori; Roma divenne così per Brigida la sua seconda patria.
Trascorreva le giornate studiando il latino, dedicandosi alla preghiera e alle pratiche di pietà, trascrivendo in gotico le visioni e le rivelazioni del Signore, che poi passava subito al suo segretario Pietro Olavo perché le traducesse in latino.
Dalla dimora di Campo de’ Fiori, che abiterà fino alla morte, inviava lettere al papa, ai reali di Svezia, alle regine di Napoli e di Cipro e naturalmente ai suoi figli e figlie rimasti a Vadstena.
Apostola riformatrice in Italia
Si spostò in pellegrinaggio a vari santuari del Centro e Sud d’Italia, Assisi, Ortona, Benevento, Salerno, Amalfi, Gargano, Bari; nel 1365 Brigida andò a Napoli dove fu artefice e ispiratrice di una missione di risanamento morale, ben accolta dal vescovo e dalla regina Giovanna che seguendo i suoi consigli, operò una radicale conversione nei suoi costumi e in quelli della corte.
Napoli ha sempre ricordato con venerazione la santa del Nord Europa, e a lei ha dedicato un bella chiesa e la strada ove è situata nel centro cittadino; recentemente le sue suore si sono stabilite nell’antico e prestigioso Eremo dei Camaldoli che sovrasta Napoli.
Brigida, si occupò anche della famosa abbazia imperiale di Farfa nella Sabina, vicino Roma, dove l’abate con i monaci “amava più le armi che il claustro”, ma il suo messaggio di riforma non fu ascoltato da essi.
Mentre era ancora a Farfa, fu raggiunta dalla figlia Caterina (Karin), che nel 1350 era rimasta vedova e che rimarrà al suo fianco per sempre, condividendo in pieno l’ideale della madre.
Ritornata a Roma, Brigida continuò a lanciare richiami a persone altolocate e allo stesso popolo romano, per una vita più cristiana, si attirò per questo pesanti accuse, fino ad essere chiamata “la strega del Nord” e a ridursi in estrema povertà, e lei la principessa di Nericia, per poter sostenere sé stessa e chi l’accompagnava, fu costretta a chiedere l’elemosina alla porta delle chiese.
Il ritorno temporaneo del papa – Pellegrina in Terra Santa
Nel 1367 sembrò che le sue preghiere si avverassero, il papa Urbano V tornò da Avignone, ma la sua permanenza a Roma fu breve, perché nel 1370 ripartì per la Francia, nonostante che Brigida gli avesse predetto una morte precoce se l’avesse fatto; infatti appena giunto ad Avignone, il 24 settembre 1370 il papa morì.
Durante il breve periodo romano, Urbano V concesse la sospirata approvazione dell’Ordine del Ss. Salvatore e Caterina di Svezia ne diventò la prima Superiora Generale.
Brigida continuò la sua pressione epistolare, a volte molto infuocata, anche con il nuovo pontefice Gregorio XI, che già la conosceva, affinché tornasse il papato a Roma, ma anche lui pur rimanendo impressionato dalle sue parole, non ebbe il coraggio di farlo.
Ma anche Brigida, ormai settantenne, si avviava verso la fine; ottenuto il via per il suo Ordine religioso, volle intraprendere il suo ultimo e più desiderato pellegrinaggio, quello in Terra Santa.
L’accompagnavano il vescovo eremita Alfonso di Jaén custode delle sue ‘Rivelazioni’ messe per iscritto, di cui molte rimaste segrete, poi i due sacerdoti Olavo, Pietro Magnus e i figli Caterina, Birger e Karl e altre quattro persone, in totale dodici pellegrini.
Verso la fine del 1371, la comitiva partì da Roma diretta a Napoli, dove trascorse l’inverno; in prossimità della partenza, nel marzo 1372 Brigida vide morire di peste il figlio Karl, ma non volle annullare il viaggio e dopo aver pregato per lui e provveduto alla sepoltura, s’imbarcò per Cipro, dove fu accolta dalla regina Eleonora d’Aragona, che approfittò del suo passaggio per attuare una benefica riforma nel suo regno.
A maggio 1372 arrivò a Gerusalemme, dove in quattro mesi poté visitare e meditare nei luoghi della vita terrena di Gesù, poi ritornò a Roma col cuore pieno di ricordi ed emozioni e subito inviò ad Avignone il vescovo Alfonso di Jaén, con un’ulteriore messaggio per il papa, per sollecitarne il ritorno a Roma.
Morte, eredità spirituale, culto
A Gerusalemme, Brigida contrasse una malattia, che in fasi alterne si aggravò sempre più e in breve tempo dal suo ritorno a Roma, il 23 luglio 1373, la santa terminò la sua vita terrena, con accanto la figlia Caterina alla quale aveva affidato l’Ordine del Ss. Salvatore; nella sua stanza da letto si celebrava l’Eucaristia ogni giorno e prima di morire ricevette il velo di monaca dell’Ordine fa lei fondato.
Unico suo rimpianto era di non aver visto il papa tornare a Roma definitivamente, cosa che avverrà poco più di tre anni dopo, il 17 gennaio 1377, per mezzo di un’altra donna s. Caterina da Siena, che continuando la sua opera di persuasione, con molta fermezza, riuscì nell’intento.
Fu sepolta in un sarcofago romano di marmo, collocato dietro la cancellata di ferro nella Chiesa di S. Lorenzo in Damaso; ma già il 2 dicembre 1373, i figli Birger e Caterina, partirono da Roma per Vadstena, portando con loro la cassa con il corpo, che fu sepolto nell’originario monastero svedese il 4 luglio 1374.
A Roma rimasero alcune reliquie, conservate tuttora nella Chiesa di San Lorenzo in Panisperna e dalle Clarisse di San Martino ai Monti.
La figlia Caterina e i suoi discepoli, curarono il suo culto e la causa di canonizzazione; Brigida di Svezia fu proclamata santa il 7 ottobre 1391, da papa Bonifacio IX.
Del suo misticismo rimangono le “Rivelazioni”, raccolte in otto volumi e uno supplementare, ad opera dei suoi discepoli. A questi scritti la Chiesa dà il valore che hanno le rivelazioni private; sono credibili per la santità della persona che le propone, tenendo sempre conto dei condizionamenti del tempo e della persona stessa.
Come tante spiritualità del tardo medioevo, Brigida ebbe il merito di mettere le verità della fede alla portata del popolo, con un linguaggio visivo che colpiva la fantasia, toccava il cuore e spingeva alla conversione; per questo le “Rivelazioni” ebbero il loro influsso per lungo tempo nella vita cristiana, non solo dei popoli scandinavi, ma anche dei latini.
Papa Giovanni Paolo II la proclamò compatrona d’Europa il 1° ottobre 1999; santa Brigida è inoltre patrona della Svezia dal 1° ottobre 1891.
Le Suore Brigidine
Il suo Ordine del SS. Salvatore, le cui religiose sono dette comunemente “Suore Brigidine”, ebbe per due secoli un grande influsso sulla vita religiosa dei Paesi Scandinavi e nel periodo di maggiore fioritura, contava 78 monasteri ‘doppi’, nonostante le rigide regole numeriche, diffusi particolarmente nei Paesi nordici. Declinò e fu sciolto prima con la Riforma Protestante luterana, poi con la Rivoluzione Francese; in Italia le due prime Case si ebbero a Firenze e a Roma.
L’antico Ordine è rifiorito nel ramo femminile, grazie alla Beata Maria Elisabetta Hesselblad (1870-1957), che ne fondò un nuovo ramo all’inizio del Novecento; ora è diffuso in vari luoghi d’Europa, fra cui Vadstena, primo Centro dell’Ordine; le Suore Brigidine si riconoscono per il tipico copricapo, due bande formano sul capo una croce, i cui bracci sono uniti da una fascia circolare e con cinque fiamme, una al centro e quattro sul bordo, che ricordano le piaghe di Cristo.
Autore: Antonio Borrelli
+ 1276
Famoso Re d’Aragona, il Beato Giacomo I°, fu cofondatore con San Pietro Nolasco dell’Ordine Mercedario, il monarca come rito del cerimoniale nell’atto della fondazione, consegnò ai cavalieri lo scudo con le quattro sbarre rosse come emblema della monarchia che unito poi alla croce della cattedrale formerà lo stemma proprio dell’Ordine. Consegnò poi l’ospedale di Sant’Eulalia di Barcellona, che servì come primo convento dei mercedari e casa di accoglienza degli schiavi redenti. Piissimo sovrano, riportò molte vittorie sugli invasori mori, fu di grandissimo aiuto all’Ordine e dedicò molte chiese alla Madonna. Morì santamente nell’anno 1276.
L’Ordine lo festeggia il 23 luglio.
Fu il primo re che permise ai regni iberici orientali di espandere i loro domini impostando un' unità politica che si può definire il primo abbozzo del futuro regno di Spagna. Giacomo I fu figlio del re d'Aragona Pietro II il Cattolico e di Maria di Montpellier. Il suo regno fu caratterizzato sia da conquiste e rafforzamento del potere regio sia da una politica interna propositiva senza repressioni promuovendo lo sviluppo di uno Stato di diritto. La sua attività politica si è contraddistinta nel consolidare e espandere i domini sul Mediterraneo riconquistando da una parte i territori iberici dominati dai musulmani, dall'altra definendo i confini con la Francia.
Il padre, morì nel 1213, a Muret durante una battaglia contro Simone di Monfort per proteggere i territori occitani governati dai suoi vassalli. Giacomo, che era presente sul campo di battaglia, venne fatto inizialmente prigioniero, ma nel 1214, sotto pressione del Papa Innocenzo III, fu liberato e riconsegnato agli aragonesi .
Durante la sua infanzia rimase sotto la tutela dei Cavalieri templari.
Nel 1218 fondò a Barcellona insieme a San Pietro Nolasco, l'Ordine religioso dei Mercedari sotto protezione della Madonna, nato per soccorrere i cristiani fatti schiavi dai saraceni e liberarli. L'ordine fu approvato da papa Gregorio IX nel 1235. Nelle insegne Giacomo concesse i pali rossi in campo d'oro del regno d'Aragona e la croce della cattedrale di Barcellona.
Nel febbraio del 1221, si sposò con Eleonora di Castiglia, figlia del re di Castiglia Alfonso VIII e di Eleonora Plantageneta. Il matrimonio fu annullato però nel 1229 per consanguineità.
I primi anni di regno furono contrassegnati da faticose dispute di potere con alcuni nobili aragonesi che lo fecero perfino prigioniero nel 1224. Nel 1227 attraverso il concordato di Alcalá si pose fine alle ambizioni di alcuni nobili di prendere la corona.
La stabilità politica interna, permise a Giacomo I di proteggere i mercanti di Barcellona Tarragona e Tortosa dai pirati musulmani di Maiorca; nel 1229 la stessa isola fu conquistata (solo un piccolo nucleo di resistenza musulmana rimase attiva fino al 1232). Maiorca fu allora ripopolata da catalani del nord (provenienti specialmente dall'attuale Rossiglione francese). L'isola di Minorca invece venne conquistata solo nel 1287 ad opera di Alfonso III e ripopolata da catalani.
Dal 1232 al 1238, Giacomo I con l'aiuto del nobile Blasco de Alagon e il maestro degli ospedalieri Hugo de Folcalquer, iniziò la conquista di Valencia. Nel 1245 ci fu la decisiva capitolazione del regno musulmano ad opera degli aragonesi con l'aiuto del regno di Castiglia. I mori si rivoltarono diverse volte e Giacomo rispettò le tradizioni e gli usi locali.
Dal 1232 al 1242 convocò due concili istituendo l'inquisizione ad opera di Raimondo di Peñafort. Questa prima inquisizione non fu particolarmente ostile tanto che anche gli ebrei non furono perseguitati. Incaricò negli stessi anni il vescovo e giurista Vidal de Canelles, di redarre trattati di diritto (Compilacion de Canellas o de Huesca) ricchi di buon senso ed equità che si imposero come regolamenti generali dello Stato.
Nel 1235 si sposò con la principessa ungherese Violante (Jolanda) figlia del re Andrea II ed ebbe come figlio Pietro III il futuro re, e Giacomo II.
Nel 1241 ereditò dal cugino Nuño Sánchez le contee di Rossiglione e Cerdanya e la viscontea di Fenolleda attualmente in Francia, mentre non riuscì a tornare in possesso di Carcassone e della contea di Tolosa spodestate nel 1213 da Simone di Monfort e divenute ormai feudo del re di Francia.
Nel 1258 con il trattato di Corbeil, Giacomo rinunciò definitivamente a tutta l'Occitania (territorio appartenuto agli antichi Conti di Barcellona) mantenendo solo Montpellier, Luigi IX re di Francia, rinunciò alla Catalogna e il Rossignone.
Nel 1269 Giacomo I volle intraprendere una crociata in Terra Santa partendo da Barcellona, ma la sua flotta, dispersa da una tempesta, si rifugiò in prossimità di Montpellier. Giacomo decise di desistere sul suo intento e annullò l'impresa, inviò solo una parte dell'esercito per aiutare la città di Acri contro gli assalti saraceni. Probabilmente grazie al suo aiuto, la città riuscì a resistere ancora come ultimo baluardo cristiano in Terra Santa. Nel 1274, propose un'altra spedizione in Terra Santa, ma il concilio di Lione non accolse il suo proposito.
Giacomo I morì a Valencia nel 1276 lasciando al figlio Pietro III il regno di Aragona e di Valencia e la Catalogna e a Giacomo II il nuovo regno di Maiorca e la signoria di Montpellier.
Fonte: www.canelles.it
Ecco oggi uno sposo Beato ucciso insieme a i martiti Oblati, famiglia religiosa a cui sono particolarmente legato... Conosciamo poi Santa Kinga, sposa rimasta vergine e infine la Beata Ludovica che "da modella di sposa divenne modella di monaca".
Benifayó, Spanga, 5 agosto del 1894 - Pozuelo de Alarcon, Spagna, 24 luglio 1936
Beatificato il 28 ottobre 2007.
Dati biografici
Cándido Castán San José nacque a Benifayó, provincia e diocesi di Valencia, il 5 Agosto del 1894. Era un padre di famiglia che da svariati anni viveva con moglie e figli a Pozuelo de Alarcón (Madrid), nella colonia di San José.
Impiegato delle ferrovie della Compagnia del Nord della Spagna, aveva studiato al liceo nel colleggio dei F.lli del Sacro Cuore a Miranda de Ebro, dove sue padre era stato mandato come Capostazione. In seguito affrontò gli studi specialistici relativi all’ambito ferroviario. Nel 1936 prestava servizio nela suddetta compagnia come capo ufficio. Aveva due figli,Teresa, 15 anni, e José María, 7.
Cristiano coerente, militante cattolico, era a quel tempo Presidente della Confederazione Nazionale di Operai Cattolici. Così come era Presidente dei ferrovieri cattolici, sezione di Madrid-Nord, e affiliato all’Adorazione Notturna. Come si unì al “martirologio oblato”? Perchè fu portato via da casa sua e recluso, insieme con altri laici cattolici, nel convento dei Missionari Oblati, tempestivamente trasformato in prigione, e assassinato con il primo gruppo di Oblati. Tra i suoi discendenti figurano un nipote sacerdote e una nipote religiosa.
Detenzione e martirio
Il 18 luglio subisce nella propria casa una prima perquisizione. Sua figlia Teresa fu testimone diretta della sua detenzione e ce ne rende una viva descrizione: “Si presentarono in casa alcuni miliziani, con il pretesto di trovare delle armi, che ovviamente non esistevano… quando terminarono, gli ordinarono di non muoversi da casa. ”Quattro giorni dopo, il 23 luglio, verso mezzogiorno, fu obbligato da un gruppo di “Miliziani del comitato rivoluzionario di Pozuelo” ad abbandonare la propria casa”.
Fu condotto come prigioniero nella casa dei Missionari Oblati. Rinchiuso nel convento degli stessi, al tramonto del 23 Luglio ricevette la visita della moglie che gli portava da mangiare. Quella stessa notte tra il 23 e il 24 luglio venne portato via dal convento con altri 7 Oblati e giustiziato con loro a Casa de Campo, un parco situato tra Pozuelo e Madrid.
Testimonianze
Interessantissima e dettagliata la testimonianza di sua figlia. Riportiamo alcuni paragrafi:
“I miei genitori si sposarono il 4 giugno del 1919. L’ambiente familiare era staordinario e laddove andavano i miei genitori, andavamo io e mio fratello. Siamo stati educati in un clima di amore e religiosità, dove nella familia, da parte dei miei genitori, ci venne insegnato di pregare e amare Dio sopra ogni cosa e a compiere opere di carità. Ho un vivo ricordo della grande immagine del Sacro Cuore di Gesù che avevamo sia nella casa di Madrid che in quella di Pozuelo. Ricordo che da piccola, quando non mi comportavo bene, mio padre mi mandava a inginocchiarmi davanti al Sacro Cuore e chiedergli perdono.
Preoccupati per la nostra educazione religiosa, i miei genitori ci portarono a scuole religiose, sia a Madrid che a Pozuelo.
Anche in casa mia si viveva un clima profondo di religiosità. Mio padre pregava il rosario tutti i giorni ed era devotissimo alla Santissima Vergine, insegnandoci che era la nostre Madre Celeste. Nel pomeriggio visitava il Santissimo. Molte volte io lo accompagnavo, in altre occasioni diceva di essere stato in questa o quella Chiesa.
Era membro della Adorazione Notturna. Moltissimo devoto al Sacro Cuore di Gesù, lo intronizzò solennemente in casa mia. Questa religiosità mio padre non solo la viveva nella sua intimità, ma è stato anche un divulgatore della fede Cattolica.
Quando ci trasferimmo a Pozuelo, ricordo che promosse , in collaborazione con altri vicini, la costruzione di una cappella, che esiste ancora oggi, in onore di San Giuseppe, per ascoltare la messa la Domenica. Dovevamo portarci le sedie perchè non solo non c’erano i banchi, ma neppure il pavimento.
In vista della brutta piega che le cose stavano prendendo, ricordo che mia madre propose a mio padre (a seguito dell’arresto domiciliare) di fuggire a Benicarló, con la famiglia di mia madre, e si nascondesse lì. Mio padre si rifiutò dicendo che non doveva affatto nascondersi perchè non aveva fatto nulla di male.
Il 23 luglio, verso mezzogiorno, si presentarono di nuovo i militanti per arrestare e portar via mio padre. In casa c’eravamo solo lui ed io, poiché mia madre era uscita a fare la spesa, accompagnata dal mio fratello piccolo. Mio padre mi diede la fede nuziale e le chiavi di casa dicendomi di consegnarle a mia madre. Lo portarono al convento dei Padri Oblati e nel tragitto incontrò mia madre e mio fratello che stavano ritornando dalla spesa. Mia madre gli preparò la cena e la portò al convento. Il giorno dopo gli preparò la colazione ma quando gliela portò, già non c’era più.
In casa mia, mia madre considerò sempre mio padre un martire, perchè sapeva che l’unica causa della sua morte è stata la Religione.
Martire della fede o avversario politico?
Questo è un interrogativo che alcuni Consulenti del Tribunale Vaticano prospettarono. Questo diede al Postulatore l’occasione di studiare più a fondo questa Causa per cancellare questo dubbio. Ammettiamo che le testimonianze dei suoi figli , “per sentito dire”, lascino uno spiraglio di dubbio. In effetti Candido Castàn era stato “nominato” (non eletto) “assembleista” durante la dittatura del Generale Primo de Rivera e aveva svolto la funzione di Consigliere interno supplente nel Comune di Madrid. Tuttavia, non era iscritto a nessun partito, nè fondò alcun sindacato cattolico: il Generale aveva soppresso i primi e sospeso questi ultimi. Forse faceva parte o frequentava qualche Circolo Cattolico di ferrovieri, per la sua formazione Cristiana. Ad ogni modo, dal momento in cui si trasferì con la sua famiglia a Pozuelo, nel 1930, e dopo le dimissioni e l’auto-esilio del Generale, si allontanò totalmente da tutti gli incarichi sociali che avesse potuto svolgere precedentemente nel Municipio di Madrid. Vi sono inoltre dei documenti che attestano che il Comitato rivoluzionario di Pozuelo, che lo arrestò e lo uccise, non era a conoscenza di queste informazioni, dato che nella lista dei giustiziati compare sempre e solo come “impiegato ferroviario” e apolitico.
Candido Castàn era molto conosciuto a Pozuelo, località che allora contava massimo duemila abitanti. Il quartiere della stazione, in cui viveva e la cui Chiesa frequentava, non raggiungeva i mille abitanti. Tutti lo conoscevano come controllore dei treni che circolavano da Pozuelo a Madrid.
Era sicuramente conosciuto per essere un praticante e fervente cattolico. Dato che non poteva partecipare all’Adorazione Notturna, come quando viveva a Madrid, visitava il Santissimo tutte le sere nella Cappella del Carmelo (oggi Parrocchia) nel quartiere della Stazione. Nella Clina di San José, in cui viveva con la sua famiglia, fu uno dei più attivi promotori per la costruzione di una piccola cappella in onore di San José, che rendesse più facile al circondario partecipare alla Messa domenicale. I Gesuiti di Madrid, con cui Candido aveva un buon rapporto, collaborarono alla realizzazione di questa opera, donandogli ornamenti e contenitori di vetro sacri.
Educato nel Collegio dei religiosi dei Sacri Cuori, a Miranda di Ebro (Burgos), dove suo padre era Capostazione, conservò pure con loro l’amicizia e un buon rapporto.
Nel 1931, durante la prima ondata della persecuzione religiosa, in cui vennero bruciati chiese e conventi, accolse in casa sua tre membri della ormai sciolta Compagnia del Gesù: due sacerdoti e un fratello.
Frequentava il collegio di San José de Cluny, in cui studiavano le sue figlie. Partecipava con la sua famiglia agli eventi culturali e alle feste che avevano luogo nel convento degli Oblati, quando, in occasione delle festività più importanti, gli scolastici rappresentavano “Atti Sacramentali”.
Possiamo ipotizzare che frequentasse pure il gruppo di cattolici praticanti che si riuniva insieme al Servo di Dio P. José Vega. Questo zelante e quasi “temerario” sacerdote Oblato, sfidando la tragedia che sembrava imminente, li incorggiava a restare saldi nella fede, remando controcorrente nel clima antireligioso della II Repubblica.
Era un grande devoto del Sacro Cuore, che aveva solennemente intronizzato nella sua casa, la cui festa celebrava con i vicini proprio nella sua dimora.
Il corpo del delitto
Quando i miliziani del Comitato Rivoluzionario di Pozuelo andarono a perquisire la sua casa “in cerca di armi” (pretesto che usavano come scusa per entrare in conventi e case), trovarono quello che cercavano, il corpo del delitto: una grande immagine del sacro Cuore di Gesù, affiancata da due immagini più piccole, di San Giuseppe e di Santa Teresa, verso i quali professava una particolare devozione.
È chiaro che era uno spiccato e conosciuto “nemico” che bisognava sconfiggere per la sua fede profonda e per le sue pratiche religiose, ben conosciute in tutto il vicinato.
Tramite un serio studio della documentazione, il Postulatore della Causa manifestava il frutto della sua indagine con queste parole:
“Posso concludere in coscienza che, a mio giudizio, il Servo di Dio Cándido Castán San José è stato un laico cattolico coerente con la sua fede, di fervente pratica religiosa. Di conseguenza, questo Servo di Dio fu giustiziato, così come i 22 presunti Martiri Oblati, a causa della sua fede e per la sua conosciuta pratica religiosa di questa stessa fede cristiana, e non per ragioni politiche”.
Più di uno ci ha chiesto perchè gli Oblati hanno incluso nella Causa dei propri Martiri questo padre di famiglia, non essendo egli un religioso e non facendo parte del loro Istituto. La risposta del Postulatore è chiara e severa: la vigilia del suo martirio lo rinchiusero nel convento degli Oblati, lo fucilarono quella stessa notte con il primo gruppo di religiosi e, senza dar luogo a dubbi, per lo stesso motivo: “in odium fidei”, per la sua chiara testimonianza di coerenza con la fede che professava e viveva. Se non fosse stato incluso, sarebbe stata una ingiustizia imperdonabile. E uno si domanda: Non potrebbe essere proclamato “laico oblato associato”? E magari loro patrono e protettore.
Fonte:www.martiripozuelo.wordpress.com
Ungheria, 1224 – 1292
Figlia del re di Ungheria Bela IV. Nel 1239 andò sposa di Boleslao V il Casto, principe di Cracovia, visse con lui in perfetta castità. Alla morte del marito (1279), entrò tra le Clarisse, ove si distinse per la preghiera e la penitenza. Divenuta Abbadia del monastero, si prodigò nell’assistenza ai poveri e ai malati. Beatificata da Alessandro VIII (16390).
Patrona della Polonia e della Lituania.
Patronato: Polonia, Lituania.
Emblema: Corona, Scettro
Martirologio Romano: A Stary Sacz presso Tarnów in Polonia, santa Cunegonda, che, figlia del re di Ungheria, data in moglie al duca Boleslao, mantenne insieme a lui illibata la sua verginità e, rimasta vedova, professò la regola di santa Chiara nel monastero da lei fondato.
Il 3 luglio 1998 è stato riconosciuto un miracolo ottenuto per sua intercessione; questo ha aperto la strada per la canonizzazione della beata Kinga, il cui culto era stato confermato nel 1690 da papa Alessandro VIII e quindi papa Giovanni Paolo II ha proceduto alla canonizzazione il 16 giugno 1999 a Stary Sacz (Polonia).
Nel 1715 era stata nominata Patrona della Polonia e della Lituania da papa Clemente XI. Ma se tutti si sono ricordati di glorificarla e venerarla ufficialmente in questi ultimi secoli, bisogna però dire che s. Kinga (Cunegonda) è un personaggio del XIII secolo; infatti ella nacque nel 1224 dal re d’Ungheria Bela IV e da Teodora Laskarysa ed ebbe come sorelle le beate Jolanda e Margherita.
Crebbe timorata di Dio e nel 1239 venne data in sposa a Boleslao il Pudico, principe di Cracovia, inducendolo a fare voto di castità insieme a lei. Condusse a corte una vita di mortificazione, dedicandosi alla preghiera e alle opere assistenziali verso i malati ed i poveri.
Sollecitò insieme al marito la canonizzazione di s. Stanislao vescovo di Cracovia che avvenne nel 1253. Nel 1279 le morì il marito Boleslao e libera da ogni legame, non avendo avuti figli, lasciò gli incarichi di Stato e si ritirò nel monastero delle clarisse a Stary Sacz da lei fondato con i beni della sua dote.
Contro la sua volontà fu eletta badessa, compito che espletò con una grande umiltà, a lei e alle sue preghiere venne attribuito il merito del ritrovamento dell’acqua nel monastero, che ne era privo e del salgemma a Bochnia.
Trascorse nel monastero tredici anni, esaurendo le forze nelle penitenze e nell’ascetica; confortata da una visione di s. Francesco, chiuse la sua vita terrena il 25 luglio 1292, dopo una lunga malattia, nel giorno che lei stessa aveva profetizzato.
Le prime notizie che ci sono pervenute per iscritto, compaiono in una prima ‘Vita’ anonima compilata a Cracovia nel 1401 e una successiva rielaborazione della prima nel 1474.
Autore: Antonio Borrelli
Bourg-en-Bresse, Francia, 28 luglio 1462 - Orbe, Svizzera, 24 luglio 1503
Illustre principessa della Casa di Savoia, figlia del beato Amedeo IX. Dopo alcuni anni di matrimonio, rimasta vedova in giovanissima età, abbracciò la regola di santa Chiara, secondo lo spirito di santa Coleta. Passò i suoi anni in monastero come fulgido modello delle virtù religiose.
Martirologio Romano: A Orbe nella Savoia, beata Ludovica, religiosa, che, figlia del beato duca Amedeo, sposò Ugo principe di Châlon e alla sua morte abbracciò in umiltà e fedeltà la regola di santa Chiara secondo la riforma di santa Coletta.
Ludovica nacque (probabilmente) a Bourg-en-Bresse il 28 luglio 1462, quinta dei nove figli del Beato Amedeo IX di Savoia e di Jolanda di Francia, sorella del Re Luigi XI. La capitale del Ducato era Chambery, ma la corte era itinerante per un controllo diretto dei territori. Casa Savoia era già proprietaria di quello straordinario documento della Passione che è la Sindone, tale tesoro prezioso seguiva la corte nei vari spostamenti. Possiamo facilmente immaginare gli occhi commossi di Ludovica e del padre che ammirano l’Uomo dei Dolori impresso nel Sacro Lino. Estremamente religioso e munifico verso i poveri, dopo aver assicurato al suo popolo un lungo periodo di pace, il Beato Amedeo morì a Vercelli il 30 marzo 1472 a soli trentotto anni. Ludovica ne aveva dieci. L’eredità paterna fu una fede profonda e, possiamo dire, la santità. La madre, dal carattere più forte del consorte, era la Reggente del Ducato già da alcuni anni.
La dolcezza della giovane Ludovica fece breccia nel cuore di Ugo di Chalon, più grande di quattordici anni, membro del ramo cadetto dei Signori di Borgogna, ospite a Chambery per sette anni dopo essere caduto in disgrazia. Diventerà suo marito.
Le vicende politiche di quei tempi erano assai complicate, gli interessi territoriali causavano numerose guerre. Jolanda strinse un patto con Carlo il Temerario, Duca di Borgogna, ma, sospettata di complotto col fratello, in un'imboscata notturna, fu arrestata con i figli proprio dal suo alleato (1476). Nella solitudine del maniero di Rouvres (Digione), in una prigionia in verità non rigida, Ludovica fece l’esperienza di una sorta di ritiro religioso e conobbe il francescano Padre Giovanni Perrin, che tanta importanza avrebbe avuto per lei in futuro. Ugo le fece visita, in un crescendo d’affetto, anche se lei cominciava a desiderare il ritiro in clausura, fu Padre Perrin a convincerla che anche il matrimonio poteva essere vissuto santamente. Intanto, per interessamento dello zio Re, Jolanda e figli furono lasciati liberi. Mentre erano in visita alla corte di Francia il Duca di Borgogna questa volta imprigionava Ugo.
Jolanda morì nel castello di Moncalieri il 29 agosto 1478. Ludovica e la sorella Maria furono condotte da Luigi XI che si considerava loro tutore naturale. La sua era una preoccupazione interessata, il matrimonio della nipote con Ugo di Chalon gli procurava infatti un importante alleato. Ludovica, che ricambiava l'affetto del pretendente, acconsentì. Le nozze furono celebrate solennemente a Digione il 24 agosto 1479. La sposa aveva diciassette anni e avrebbe anche fatto a meno dello sfarzo dei festeggiamenti, l’importanza delle due casate però lo imponeva; fu eletta come dimora il castello di Nozeroy.
L'unione fu felice, le due anime si incontrarono in un'intesa perfetta. Ugo di Chalon era tornato in possesso di un considerevole patrimonio, dagli archivi di Arlay e di Bresançon apprendiamo delle numerose elargizioni dei due sposi a favore dei bisognosi. Ludovica si dedicava personalmente alla tessitura per distribuire panni ai poveri o per ornare le chiese. Per entrambi la preghiera era il centro su cui fondare l'unione. L'idillio, tuttavia, durò solo dieci anni, nel 1490 il dolore colpì nuovamente Ludovica. Dopo aver assistito, visto spirare e data cristiana sepoltura al consorte, le restava come unico riferimento la fede. Poteva vivere da ricca vedova nel suo castello o contrarre un nuovo importante matrimonio ma il desiderio, mai sopito, era quello di consacrarsi al Signore. Padre Perrin la guidò spiritualmente fino all'ingresso nel Monastero di S. Chiara ad Orbe (Vaud). Era questa una fondazione della famiglia Chalon a cui aveva assistito S. Colette, la riformatrice francese delle Clarisse. Molte volte Ludovica vi si era recata per pregare facendo visita alla cognata Filippina che lì era monaca. Entrò in monastero nel 1492, dopo essersi spogliata di tutti i suoi beni: il semplice abito francescano prendeva il posto delle vesti preziose. Da modello di sposa divenne modello di monaca. Grande fu il suo spirito di pietà e di preghiera, in un’atmosfera austera e povera. Scrisse alcune meditazioni e un piccolo trattato sull'importanza, per un monastero, della fedeltà alla Regola. Questi manoscritti furono portati dalle suore nel loro trasferimento da Orbe a Evian, ma oggi sono scomparsi.
Nell'ultimo periodo della sua vita Ludovica soffrì di diverse malattie; morì, sussurrando il nome della Vergine Maria, il 24 luglio 1503. Aveva solo quarant'anni. Si diffuse subito la fama della sua santità, le prime notizie biografiche vennero scritte da Caterina di Saulx, sua compagna fedele per vent’anni, sia prima che dopo l'entrata in monastero. Ludovica fu sepolta nel cimitero del convento, poi, quando nel 1531 le monache furono cacciate da Orbe, le sue spoglie, con quelle della cognata Filippina, furono riposte in un'unica cassa di quercia e trasportate nel convento francescano di Nozeroy. Durante la Rivoluzione Francese il convento fu distrutto, delle tombe, anche se non profanate, si perse ogni traccia. Nel 1838 Carlo Alberto ottenne dal governo francese e dal Vescovo di S. Claude l’autorizzazione ad effettuare gli scavi alla ricerca della cassa che fu ritrovata in buone condizioni. Le ossa di Ludovica furono riconosciute dal medico David dopo una scrupolosa perizia, basata sulla diversa altezza e sull’età delle due defunte. Furono consegnate a Monsignor Vogliotti, Cappellano Regio, affinché venissero trasportate a Torino per essere riposte, con i dovuti onori, nella cappella interna di Palazzo Reale, all'epoca Parrocchia, presso l'altare dedicato al padre B. Amedeo IX (1840). L’anno precedente Carlo Alberto aveva ottenuto la conferma del culto da papa Gregorio XVI che fissava la memoria liturgica della Beata al 24 luglio.
Autore: Daniele Bolognini
Ayguafreda, Spagna, 7 febbraio 1887 – Barcellona, Spagna, 24/25 luglio 1936
Nacque in Ayguafreda (Barcellona) il 7 febb. 1887. Sposò Francesca Ribas Roger, dalla quale ebbe due figli, il maggiore dei quali, José fu domenicano. Lavorò in fabbrica, esempio di ogni cristiana virtù. Preso dai miliziani, fu ucciso per strada a Barcellona nella notte tra il 24 e il 25 lug. 1936, «per il suo cattolicesimo pratico e irriducibile e per essere padre di un religioso e fratello di un altro» (il p. Raimondo, O.P., martire anche lui). E' stato beatificato il 28 ottobre 2007.
m. 408
Rimasta vedova ancora molto giovane, si dedicò al servizio di Dio a Costantinopoli e fu fedele discepola di San Giovanni Crisostomo.
Martirologio Romano: A Nicomedia in Bitinia, nell’odierna Turchia, transito di santa Olimpiade, vedova: dopo aver perso il marito in ancor giovane età, trascorse piamente a Costantinopoli il resto della sua vita tra le donne consacrate a Dio, assistendo i poveri e rimanendo fedele collaboratrice di san Giovanni Crisostomo anche durante il suo esilio.
Siponto, III sec. – Furci ? (Chieti), 310 ca
Santi GIUSTINO, presbitero, FIORENZO, FELICE e GIUSTA, martiri.
Come per tutti i gruppi di martiri dei primi tempi della Chiesa, le notizie sono frammentarie e spesso inserite nei ‘Martirologi’ anche molti secoli dopo la presunta data della loro morte; quindi risentono di tutte le incertezze dovute al lungo tempo trascorso.
Così successe per il gruppo di Giustino prete, Fiorenzo e Felice suoi fratelli e martiri e per Giusta loro nipote e martire; perché l’unica fonte che parla di loro è una leggendaria ‘Passio’ del secolo XV.
All’inizio del secolo IV vivevano a Siponto (importante centro romano in Puglia, distrutto e poi ricostruito con il nome di Manfredonia), i tre fratelli Fiorenzo, Giustino e Felice; il più erudito ed eloquente dei tre era Giustino, che era stato affidato al vescovo della città, che dopo circa 20 anni l’aveva ordinato sacerdote, dandogli l’incarico della predicazione; Fiorenzo invece si era sposato e avuto una bambina le mise il nome di Giusta, in omaggio al fratello Giustino che l’aveva battezzata.
Dopo qualche decennio i tre fratelli ferventi cristiani, con la nipote e figlia, lasciarono Siponto e si recarono a Chieti, dove rimasero sei mesi, predicando e operando miracoli.
Saputo che a ‘Forconium’ attuale Furci (Chieti), c’erano ancora dei pagani, si recarono in quella città e si misero a predicare il Vangelo anche nei castelli e ville dei dintorni.
La cosa irritò i sacerdoti degli dei pagani, che inviarono una segnalazione a Roma all’imperatore Massimiano (250-310) per ottenere dei provvedimenti repressivi e l’imperatore non tardò a rispondere, i quattro cristiani dovevano sacrificare a Giove e in caso di rifiuto essere uccisi.
Il prete Giustino con due chierici riuscì a fuggire sul monte Tubernium (in seguito Monte Cristo), gli altri tre furono arrestati e condotti a Forconium (Furci) e giacché si rifiutarono di sacrificare agli dei, furono condannati a morte mediante decapitazione.
I due fratelli Fiorenzo e Felice subirono il martirio il 25 luglio del 310 ca. Giusta invece ebbe un trattamento diverso, la giovane dopo essere stata gettata per tre giorni in una fornace ardente rimanendo illesa, alla fine fu trafitta con le frecce il 1° agosto e sepolta in una grotta a due miglia da Forconium; sul luogo più tardi verrà edificata una basilica.
Il prete Giustino invece, saputo della morte dei fratelli e della giovane nipote, discese dal monte, trasferì i corpi di Felice e Fiorenzo accanto a quello di Giusta e dopo molti anni morì in pace il 31 dicembre 384, all’età di 84 anni e sepolto presso ‘Offidae (prov. Ascoli Piceno), dove fu anche edificata una basilica.
La diversità delle date di celebrazione e dei luoghi di culto, ha fatto pensare agli studiosi, che fossero santi venerati in diversi luoghi ma accomunati dalla fantasia dello scrittore della ‘passio’ prima citata.
S. Giustino era venerato a Chieti il 1° gennaio, poi dal 1616 la festa fu spostata al 14 gennaio e venerato come vescovo locale e patrono della città; la celebrazione a causa del clima freddo, fu spostata ancora all’11 maggio.
Fiorenzo e Felice, furono a volte identificati come soldati martiri, a volte come martire africano il primo e come il celebre s. Felice di Nola il secondo.
Di Giusta invece si sa che in località Bazzano non lontano da Paganica all’Aquila, esisteva una cripta a lei dedicata, in cui fu trovata un’iscrizione del 396 e dove si conservava il corpo; su di essa venne edificata una chiesa, ampliata nel XIII secolo, che divenne il centro del suo culto in Abruzzo e Campania, a lei erano dedicate tre chiese nella diocesi dell’Aquila, nove in quella di Penne, sei in quella di Chieti e cinque in quella di Sulmona. La sua festa fu inserita negli antichi ‘Martirologi’ il 1° agosto.
In precedenti Martirologi Romani i quattro congiunti figuravano tutti insieme al 25 luglio; attualmente non sono menzionati.
Autore: Antonio Borrelli
26 luglio è da segnare sul calendario per i Santi Sposi! abbiamo Anna e Gioacchino, i genitori della Vergine Maria e nonni di Gesù. Riordiamo poi la Beata Camilla, uccisa dal marito e la Beata Sancia, sposa, il cui processo di beatificazione non è mai terminato...
Gerusalemme, I secolo a.C.
Anna e Gioacchino sono i genitori della Vergine Maria. Gioacchino è un pastore e abita a Gerusalemme, anziano sacerdote è sposato con Anna. I due non avevano figli ed erano una coppia avanti con gli anni. Un giorno mentre Gioacchino è al lavoro nei campi, gli appare un angelo, per annunciargli la nascita di un figlio ed anche Anna ha la stessa visione. Chiamano la loro bambina Maria, che vuol dire «amata da Dio». Gioacchino porta di nuovo al tempio i suoi doni: insieme con la bimba dieci agnelli, dodici vitelli e cento capretti senza macchia. Più tardi Maria è condotta al tempio per essere educata secondo la legge di Mosè. Sant'Anna è invocata come protettrice delle donne incinte, che a lei si rivolgono per ottenere da Dio tre grandi favori: un parto felice, un figlio sano e latte sufficiente per poterlo allevare. È patrona di molti mestieri legati alle sue funzioni di madre, tra cui i lavandai e le ricamatrici. (Avvenire)
Etimologia: Anna = grazia, la benefica, dall'ebraico
Emblema: Libro
Martirologio Romano: Memoria dei santi Gioacchino e Anna, genitori dell’immacolata Vergine Maria Madre di Dio, i cui nomi sono conservati da antica tradizione cristiana.
Nonostante che di s. Anna ci siano poche notizie e per giunta provenienti non da testi ufficiali e canonici, il suo culto è estremamente diffuso sia in Oriente che in Occidente.
Quasi ogni città ha una chiesa a lei dedicata, Caserta la considera sua celeste Patrona, il nome di Anna si ripete nelle intestazioni di strade, rioni di città, cliniche e altri luoghi; alcuni Comuni portano il suo nome.
La madre della Vergine, è titolare di svariati patronati quasi tutti legati a Maria; poiché portò nel suo grembo la speranza del mondo, il suo mantello è verde, per questo in Bretagna dove le sono devotissimi, è invocata per la raccolta del fieno; poiché custodì Maria come gioiello in uno scrigno, è patrona di orefici e bottai; protegge i minatori, falegnami, carpentieri, ebanisti e tornitori.
Perché insegnò alla Vergine a pulire la casa, a cucire, tessere, è patrona dei fabbricanti di scope, dei tessitori, dei sarti, fabbricanti e commercianti di tele per la casa e biancheria.
È soprattutto patrona delle madri di famiglia, delle vedove, delle partorienti, è invocata nei parti difficili e contro la sterilità coniugale.
Il nome di Anna deriva dall’ebraico Hannah (grazia) e non è ricordata nei Vangeli canonici; ne parlano invece i vangeli apocrifi della Natività e dell’Infanzia, di cui il più antico è il cosiddetto “Protovangelo di san Giacomo”, scritto non oltre la metà del II secolo.
Questi scritti benché non siano stati accettati formalmente dalla Chiesa e contengono anche delle eresie, hanno in definitiva influito sulla devozione e nella liturgia, perché alcune notizie riportate sono ritenute autentiche e in sintonia con la tradizione, come la Presentazione di Maria al tempio e l’Assunzione al cielo, come il nome del centurione Longino che colpì Gesù con la lancia, la storia della Veronica, ecc.
Il “Protovangelo di san Giacomo” narra che Gioacchino, sposo di Anna, era un uomo pio e molto ricco e abitava vicino Gerusalemme, nei pressi della fonte Piscina Probatica; un giorno mentre stava portando le sue abbondanti offerte al Tempio come faceva ogni anno, il gran sacerdote Ruben lo fermò dicendogli: “Tu non hai il diritto di farlo per primo, perché non hai generato prole”.
Gioacchino ed Anna erano sposi che si amavano veramente, ma non avevano figli e ormai data l’età non ne avrebbero più avuti; secondo la mentalità ebraica del tempo, il gran sacerdote scorgeva la maledizione divina su di loro, perciò erano sterili.
L’anziano ricco pastore, per l’amore che portava alla sua sposa, non voleva trovarsi un’altra donna per avere un figlio; pertanto addolorato dalle parole del gran sacerdote si recò nell’archivio delle dodici tribù di Israele per verificare se quel che diceva Ruben fosse vero e una volta constatato che tutti gli uomini pii ed osservanti avevano avuto figli, sconvolto non ebbe il coraggio di tornare a casa e si ritirò in una sua terra di montagna e per quaranta giorni e quaranta notti supplicò l’aiuto di Dio fra lacrime, preghiere e digiuni.
Anche Anna soffriva per questa sterilità, a ciò si aggiunse la sofferenza per questa ‘fuga’ del marito; quindi si mise in intensa preghiera chiedendo a Dio di esaudire la loro implorazione di avere un figlio.
Durante la preghiera le apparve un angelo che le annunciò: “Anna, Anna, il Signore ha ascoltato la tua preghiera e tu concepirai e partorirai e si parlerà della tua prole in tutto il mondo”.
Così avvenne e dopo alcuni mesi Anna partorì. Il “Protovangelo di san Giacomo” conclude: “Trascorsi i giorni necessari si purificò, diede la poppa alla bimba chiamandola Maria, ossia ‘prediletta del Signore’”.
Altri vangeli apocrifi dicono che Anna avrebbe concepito la Vergine Maria in modo miracoloso durante l’assenza del marito, ma è evidente il ricalco di un altro episodio biblico, la cui protagonista porta lo stesso nome di Anna, anch’ella sterile e che sarà prodigiosamente madre di Samuele.
Gioacchino portò di nuovo al tempio con la bimba, i suoi doni: dieci agnelli, dodici vitelli e cento capretti senza macchia.
L’iconografia orientale mette in risalto rendendolo celebre, l’incontro alla porta della città, di Anna e Gioacchino che ritorna dalla montagna, noto come “l’incontro alla porta aurea” di Gerusalemme; aurea perché dorata, di cui tuttavia non ci sono notizie storiche.
I pii genitori, grati a Dio del dono ricevuto, crebbero con amore la piccola Maria, che a tre anni fu condotta al Tempio di Gerusalemme, per essere consacrata al servizio del tempio stesso, secondo la promessa fatta da entrambi, quando implorarono la grazia di un figlio.
Dopo i tre anni Gioacchino non compare più nei testi, mentre invece Anna viene ancora menzionata in altri vangeli apocrifi successivi, che dicono visse fino all’età di ottanta anni, inoltre si dice che Anna rimasta vedova si sposò altre due volte, avendo due figli la cui progenie è considerata, soprattutto nei paesi di lingua tedesca, come la “Santa Parentela” di Gesù.
Il culto di Gioacchino e di Anna si diffuse prima in Oriente e poi in Occidente (anche a seguito delle numerose reliquie portate dalle Crociate); la prima manifestazione del culto in Oriente, risale al tempo di Giustiniano, che fece costruire nel 550 ca. a Costantinopoli una chiesa in onore di s. Anna.
L’affermazione del culto in Occidente fu graduale e più tarda nel tempo, la sua immagine si trova già tra i mosaici dell’arco trionfale di S. Maria Maggiore (sec. V) e tra gli affreschi di S. Maria Antiqua (sec. VII); ma il suo culto cominciò verso il X secolo a Napoli e poi man mano estendendosi in altre località, fino a raggiungere la massima diffusione nel XV secolo, al punto che papa Gregorio XIII (1502-1585), decise nel 1584 di inserire la celebrazione di s. Anna nel Messale Romano, estendendola a tutta la Chiesa; ma il suo culto fu più intenso nei Paesi dell’Europa Settentrionale anche grazie al libro di Giovanni Trithemius “Tractatus de laudibus sanctissimae Annae” (Magonza, 1494).
Gioacchino fu lasciato discretamente in disparte per lunghi secoli e poi inserito nelle celebrazioni in data diversa; Anna il 25 luglio dai Greci in Oriente e il 26 luglio dai Latini in Occidente, Gioacchino dal 1584 venne ricordato prima il 20 marzo, poi nel 1788 alla domenica dell’ottava dell’Assunta, nel 1913 si stabilì il 16 agosto, fino a ricongiungersi nel nuovo calendario liturgico, alla sua consorte il 26 luglio.
Artisti di tutti i tempi hanno raffigurato Anna quasi sempre in gruppo, come Anna, Gioacchino e la piccola Maria oppure seduta su una alta sedia come un’antica matrona con Maria bambina accanto, o ancora nella posa ‘trinitaria’ cioè con la Madonna e con Gesù bambino, così da indicare le tre generazioni presenti.
Dice Gesù nel Vangelo “Dai frutti conoscerete la pianta” e noi conosciamo il fiore e il frutto derivato dalla annosa pianta: la Vergine, Immacolata fin dal concepimento, colei che preservata dal peccato originale doveva diventare il tabernacolo vivente del Dio fatto uomo.
Dalla santità del frutto, cioè di Maria, deduciamo la santità dei suoi genitori Anna e Gioacchino.
Autore: Antonio Borrelli
Etimologia: Gioacchino = Dio rende forti, dall'ebraico
Martirologio Romano: Memoria dei santi Gioacchino e Anna, genitori dell’immacolata Vergine Maria Madre di Dio, i cui nomi sono conservati da antica tradizione cristiana.
Il culto dei santi genitori della Vergine Maria fu tardivo in Occidente, con inizio timido intorno al 900-1000, mentre nell’Oriente cristiano già nel VI secolo si avevano manifestazioni liturgiche rilevanti, specialmente in collegamento con le feste mariane quali la Concezione e la Natività. Si trattava di occasioni importanti per esprimere, con preghiere, commenti e veri inni, la venerazione dei genitori della Madonna, in termini moderni si direbbe per festeggiare la genitorialità di Sant’Anna e San Gioacchino.
A cavallo della decisione di papa Gregorio XII di unificare nel 1584 la loro festa liturgica al 26 luglio, si andavano diffondendo i vari patronati specialmente per Anna, che significa “grazia “ e anche “misericordia”, molto meno, quasi niente, per Gioacchino, che etimologicamente sta per “Dio solleva”. Il nucleo di intercessioni per le quali la madre della Vergine è invocata ancora oggi è assai ampio, sicuramente non meno di una ventina. La maggior parte riguarda l’ambito della famiglia, ma anche l’area sanitaria come febbri e neuropsicopatie. Pure molte categorie di lavoratori sono poste, non sempre in maniera particolarmente motivata, sotto la protezione di Anna.
La vicenda terrena dei genitori straordinari di Maria, la madre di Gesù, è insieme delicata e illuminante. Volendo ben riflettere, essi sono i nonni del Messia, quasi il simbolo della vecchia umanità che sa aprirsi alla fecondità della grazia, il simbolo di un vecchio tronco sul quale Dio andava innestando i germogli della fede e della santità cristiana. Quindi quella vicenda non può che intrecciarsi con tanto di miracoloso.
Paradossalmente delle due figure così importanti nella storia della salvezza non vi è alcuna traccia nei Vangeli canonici. Di loro viene trattato ampiamente nel Protovangelo di S. Giacomo, un vangelo apocrifo del II secolo. Le elaborazioni posteriori di tale documento aggiunsero via via altri particolari, che soltanto la devozione andava dettando.
Dunque Anna e Gioacchino erano una coppia anziana senza figli. Lei era una israelita della tribù di Giuda, figlia del sacerdote betlemita Mathan, con discendenza quindi dalla stirpe davidica. Lui era invece un galileo, molto ricco, solito a offrire una parte del ricavato dei suoi beni al popolo e un’altra parte in sacrificio al Signore. Proprio in occasione della presentazione di un proprio sacrificio al tempio di Gerusalemme, egli veniva accusato di indegnità per la mancanza di prole nella sua unione con Anna. In Israele andava così allora nei riguardi della sterilità, considerata una mancanza della benedizione e del favore divino.
Gioacchino fu sconvolto da quel fatto e la moglie particolarmente rattristata. Così egli lasciò la casa per ritirarsi nel deserto a piangere nonché a pregare ed a digiunare per ottenere misericordia da Dio. Questa non si fece attendere: un angelo apparve prima a Gioacchino e poi ad Anna per informarli che il grembo inaridito dalla vecchiaia avrebbe dato miracolosamente alla luce la più dolce e santa delle creature. Anna attese il ritorno del marito, che stava per diventare padre, sulla porta di casa e li si strinsero baciandosi. Tale porta diventò nelle varie elaborazioni della vicenda la porta aurea di Gerusalemme, simbolo della ianua coeli. La porta del cielo cioè, che sarà riaperta al genere umano per mezzo della Immacolata Concezione della Vergine. Essa diventerà un frequente attributo nell’iconografia dei due genitori.
L’arte pittorica dal 1100 in avanti produsse poi una serie di capolavori con varie altre figurazioni, oltre all’incontro con bacio tra i due sulla porta, quali l’annuncio del-l’angelo, un nido di uccelli, le carezze a Maria Bambina, gli insegnamenti dei genitori alla figlia, la presentazione di Maria al tempio e altre ancora. Ritornando al documento apocrifo citato, Anna e Gioacchino, per mantenere un voto di ringraziamento al Signore, avrebbero lasciata al tempio la propria figliola, quando questa ebbe compiuto i tre anni di età.
Dopo qualche tempo essi morirono serenamente, anche se, per aggiungere un altro particolare, alcuni pittori si spinsero a raffigurare la morte di Anna molto più tardi onde farla assistere, nel momento del passaggio, dal nipote Gesù Bambino. Per i dipinti di Anna è anche il caso di ricordare che il suo manto è stato quasi sempre presentato in verde, il colore della gemma a primavera: come sopra accennato, in lei è in effetti germogliata la speranza del mondo.
Autore: Mario Benatti
m. 26 luglio 1486
Il martirologio ricorda una donna il cui matrimonio ebbe un tragico epilogo: la beata Camilla Gentili. Nata nella seconda metà del XV secolo a San Severino Marche da Luca dei signori di Rovellone e da Brandina della nobile famiglia Giusti, fu data in moglie al violento Battista Santucci, che odiava i Giusti. Dopo aver ucciso uno di loro, fu perdonato proprio per intercessione di Camilla. Ma non fu sufficiente. Continuò a perseguitarla, impedendole di vedere la madre. Scoperti i loro incontri segreti, uccise sua moglie. Gregorio XVI la proclamò beata nel 1841. (Avvenire)
Martirologio Romano: A San Severino sempre nelle Marche, beata Camilla Gentili, martire, uccisa dal suo empio coniuge.
Camilla Gentili nacque nelle seconda metà del XV secolo, da Luca Gentili dei signori di Rovellone e da Brandina della nobile famiglia dei Grassi. Per volere della famiglia, si sposò con il nobile Battista Santucci, uomo violento e rissoso. Il marito di Camilla riversava l'odio che aveva per tutti i membri della famiglia Grassi, sulla suocera Brandina e sulla sposa, donna mite, sottomessa e stimata da tutti per la bontà. Incolpato dell'assassinio di Pierozzo Grassi nel 1482, Battista ebbe salva la vita grazie all'intervento personale e le preghiere di Camilla. Nonostante ciò il suo odio verso i Grassi non si placò, anzi crebbe a tal punto da proibire alla moglie di avere contatti con la madre Brandina.
Accortosi che il suo divieto non era stato rispettato, il 26 luglio 1486, Battista con finta tenerezza invitò Camilla ad accompagnarlo all'Uvaiolo, località dove possedeva un podere, per trascorrere qualche ora in serenità. Camilla accondiscese senza rendersi conto che si stava recando al patibolo. Qui il marito tirò fuori un pugnale e colpì Camilla prima alla gola e poi al seno, mentre lei innalzava al Signore la sua preghiera di perdono e di amore. Battista commesso il grave misfatto tentò la fuga che non poté effettuare come se fosse legato a terra. L'agghiacciante fatto venne subito scoperto, destando indignazione e pietà.
La salma di Camilla fu tumulata nella chiesa di Santa Maria del Mercato (l'attuale chiesa di San Domenico) dove la famiglia Gentili aveva la sepoltura. Fin da subito la sua tomba fu meta di pellegrinaggi per le grazie ed i prodigi accordati a quanti ricorrevano alla sua protezione. Devoto di Camilla fu anche il cardinale di Bologna Prospero Lambertini che divenne poi papa con il nome di Benedetto XIV. Il 15 gennaio 1841 Gregorio XVI la proclamò "Beata" e stabilì la festa della Beata Camilla Gentili di Rovellone il 27 luglio, il giorno dopo la sua morte.
Autore: Elisabetta Nardi
+ 22 maggio 1271
Figlia illegittima di re Alfonso IX di Leon (m. 1230) e della nobildonna Teresa Gil, andò sposa a Simone Ruiz, e morto questi entrò nel ramo femminile dell’Ordine militare di S. Giacomo, nel monastero di Tolmancos (21 febb. 1270). In questa data fece donazione all’Ordine di tutti i suoi beni dei regni di Galizia, Portogallo e Leon.
Morì il 22 maggio 1271, e fu sepolta nel monastero di S. Eufemia (Valencia); le sue spoglie vennero trasferite a Santa Fe di Toledo nel 1608, e si lavorò assiduamente al processo di beatificazione, che però non venne portato a termine. E’ commemorata al 26 luglio.
Autore: Justo Fernandez Alonso Fonte:Enciclopedia dei Santi
Anche oggi due belle storie di santi sposi. Veramente esemplari! Il primo sposo e genitore spinto dallo spirito a spendere la sua vita ad aiutare i poveri, i secondi, due coppie spagnole Natalia ed Aurelio, Liliosa e Felice, che scelsero il martirio affascinati dalla testimonianza di altri martiri, ma solo dopo aver garantito una educazione cristiana ai loro figli.
Piacenza 1140 - 27 luglio 1200
Etimologia: Raimondo = intelligenza protettrice, dal tedesco
Martirologio Romano: A Piacenza, beato Raimondo Palmerio, padre di famiglia, che, perduti la moglie e il figlio, fondò un ospizio per accogliere i poveri.
Sua madre muore tornando con lui dalla Terrasanta; Raimondo, quindicenne, arriva da solo a Piacenza e riprende il suo lavoro di ciabattino. Più tardi si sposa: nascono via via cinque figli, e tutti muoiono in breve tempo. Ne viene un altro, Gerardo, sano e vitale. Ma perde la madre da piccolo; allora i parenti aiutano Raimondo prendendosi cura del piccolo. Rieccolo di nuovo in pellegrinaggio: a San Giacomo di Compostella, alla tomba di sant’Agostino in Pavia. E poi a Roma, diretto in Terrasanta. Ma accade qualcosa che lo fa tornare a Piacenza: un “avviso” dall’alto, un ordine di pensare piuttosto ai poveri della sua città.
È tempo di crescita e di prestigio per Piacenza, che nel 1095 ha ospitato un Concilio con papa Urbano II. Nel 1154 e 1158 le sue campagne hanno visto due Diete imperiali con Federico I Barbarossa. C’è sviluppo, c’è ricchezza. Ma ci sono anche i poveri. E Raimondo ha capito che pensare a loro è più importante del pellegrinaggio. Si butta, vi si gioca la vita. Dal pronto soccorso passa alle opere stabili, alle case per nullatenenti, agli ospizi per malati. Chiede, prega, insiste, disturba, in cerca dei mezzi per mantenerli. Affronta risoluto chi può e non fa, chi possiede e non dà, pur bazzicando ogni giorno chiese e processioni: "Aiutateci, cristiani duri e crudeli!". È in tribunale a difendere i poveri diavoli dai creditori; ottiene scarcerazioni sulla sua parola, si occupa dei bambini in abbandono, cerca un rifugio o un marito a donne in difficoltà.
A tutti insegna la dottrina cristiana nelle case, nei laboratori, in strada. Non in chiesa, però: è un semplice laico, e pure analfabeta. In chiesa prega e basta. Poi torna a disturbare i governanti, che infine lo capiscono e lo aiutano. E poi strapazza il vescovo, perché non va giù abbastanza deciso contro le lotte di fazione in città. Cerca di impedire un conflitto tra Piacenza e Cremona, e finisce in un carcere dei cremonesi: i quali poi lo liberano con scuse, sentendosi dire da tutti: "Avete imprigionato un santo!".
E da santo lo trattano, quando muore tra i poveri. Viene sepolto in una cappella presso la chiesa dei Dodici Apostoli e si affida la custodia della tomba (offerta dal Comune) a suo figlio Gerardo. Presto si spargono (e si registrano accuratamente) le voci di miracoli, e già nel 1212 il suo ospizio viene chiamato “di San Raimondo”, senza tante storie. Le richieste di canonizzazione si succedono di secolo in secolo, di papa in papa, ottenendo varie risposte che equivalgono già a un riconoscimento del culto; e nel 1602, sotto Clemente VIII, si approva l’Ufficio liturgico per la sua festa. Nel Cinquecento, intanto, i resti di Raimondo sono stati trasferiti nella chiesa delle Suore Cistercensi di Nazareth, dove si trovano tuttora, con il capo separato dal corpo e custodito in un reliquiario.
Autore: Domenico Agasso Fonte: Famiglia Cristiana
Etimologia: Natalia = nascita, dal latino
Martirologio Romano: A Córdova nell’Andalusia in Spagna, santi martiri Giorgio, diacono e monaco siro, Aurelio e Sabigoto (Natalia), coniugi, e Felice e Liliosa, ugualmente coniugi, che durante la persecuzione dei Mori, mossi dal desiderio di testimoniare la fede in Cristo, gettati in carcere non cessarono mai di lodare Cristo e morirono, infine, decapitati.
Visse durante l’occupazione musulmana a Cordova, centro del califfato ommiade (756-1091) e il suo nome era Sabigoto, conosciuta poi con il nome di Natalia. Cristiana di fede, sposò Aurelio giovane dalla solida formazione cristiana (era nato da madre cristiana e da padre maomettano, divenuto orfano fu educato da una zia cristiana).
Essi vivevano da perfetti cristiani ma senza farsi riconoscere dai musulmani, ebbero l’occasione di assistere alle offese e insulti che il cristiano Giovanni subiva da parte dei maomettani, edificati dalla serenità di lui, sentirono il desiderio di subire anch’essi il martirio per Cristo.
Questo desiderio venne rafforzato dalle visite che facevano in carcere ai futuri martiri, Giovanni, Eulogio, Flora e Maria, ma c’era un impedimento all’ardore di fede dei due coniugi, le due piccole figlie di cinque e otto anni, che rimaste sole sarebbero diventate musulmane, come tutti i loro parenti, secondo le disposizioni vigenti degli arabi.
Allora decisi, le portarono al monastero ‘Tabanense’ sotto la cura di Isabella, vedova del martire Geremia, lasciandole denaro a sufficienza per il loro mantenimento.
C’era anche un’altra coppia cristiana, che aveva gli stessi ideali, Felice e Liliosa, tutti e due figli di genitori, mori di razza, ma cristiani di religione, a loro si aggiunse un diacono Giorgio, monaco di S. Saba di Gerusalemme, giunto in Spagna per chiedere elemosine per il suo monastero e arrivato da Sabigoto (Natalia), si sentì dire da lei che aspettava proprio lui, perché in una visione le era stato promesso un monaco come compagno di martirio.
Anche Giorgio sentì il desiderio di dare la propria vita per Cristo; i cinque si accordarono affinché le due donne andassero nella moschea a viso scoperto, facendosi così riconoscere come cristiane; furono tutti arrestati e mentre le due coppie spagnole Natalia ed Aurelio, Liliosa e Felice furono condannati a morte, Giorgio essendo straniero venne rilasciato, ma non era quello che desiderava, allora si mise ad offendere Maometto e quindi venne decapitato insieme agli altri quattro, il 27 luglio dell’852 a Cordova.
I cristiani ricuperati i loro corpi, li seppellirono in vari monasteri e chiese, separati e distanti. Natalia (Sabigoto) fu sepolta nella chiesa dei SS. Fausto, Gennaro e Marziale, poi chiamata di S. Pietro.
Lo storico agiografo Usuardo nell’858, nel suo viaggio in Spagna, prese con sé i corpi dei santi Aurelio e Giorgio e li portò nel monastero parigino di Saint-Germain-des-Prés.
Sono celebrati tutti e cinque nel giorno del loro martirio, il 27 luglio.
Autore: Antonio Borrelli
+ Napoli, 1345
Sancia di Maiorca sposò, nel giugno 1304, Roberto d’Angiò, vedovo di Iolanda d’Aragona, il quale il 5 maggio 1309, alla morte del padre Carlo II, ereditò la corona di Sicilia. La pia regina edificò a Napoli il convento di S. Chiara con l’annessa splendida chiesa dove il marito, morto il 19 gennaio 1343, ebbe sepoltura e dove ella ricevette l’abito religioso, abbandonando la condizione regale e assumendo il nome di Chiara. Morì in concetto di santità nel 1345 e fu sepolta presso l’altare maggiore. Chiara, pur non godendo di un culto pubblico riconosciuto dalla Chiesa, è considerata beata dai Francescani e ricordata il 28 luglio nel martirologio dell’Ordine.
Autore: Giuseppe Morabito Fonte:Enciclopedia dei Santi
Una bellissima coppia di sposi la cui storia d'amore bellissima è coronata da una figlia Santa di grande splendore! Una coppia che finalmente la Chiesa stessa ci dice che ha raggiunto la santità non “malgrado il matrimonio”, ma proprio “grazie al matrimonio”.
29 luglio e 28 agosto
Luigi: Bordeaux, 22 agosto 1823 - La Musse, 29 luglio 1894
Zelia: Gandelain, 23 dicembre 1831 - 28 agosto 1877
“Galeotto fu il ponte….”, e precisamente quello di Saint Leonard, ad Alençon , perché su di esso si incontrarono i due. E fu amore a prima vista, almeno da parte di lei. Per nessuno dei due, a dire il vero, il matrimonio rappresentava il massimo delle aspirazioni. Lui, a 22 anni, aveva deciso di consacrarsi a Dio nell’ospizio del Gran San Bernardo, ma l’ostacolo insormontabile era lo studio del latino, ed era diventato così un espertissimo orologiaio, anche se i suoi pensieri continuavano ad abitare il cielo ed il suo cuore restava costantemente orientato a Dio. Lei pensava proprio di poter diventare una brava Figlia della Carità, ma la Superiora di Alençon, senza mezzi termini, le aveva detto che quella non era sicuramente la volontà di Dio. Aveva così iniziato a fare la merlettaia, diventando abilissima nel raffinato “punto di Alençon”, anche se il suo capolavoro continuava ad essere il suo silenzioso intreccio di preghiera e carità. Sul ponte di Saint Leonard, in quell’aprile 1858, sente distintamente che questo, e non altri, è l’uomo che è stato preparato per lei e ne è così convinta che lo sposa appena tre mesi dopo. Lo scorso 12 luglio, 150 anni dopo, Alençon ha ricordato questo matrimonio “tre volte d’oro”, anche perché la Chiesa ha riconosciuto che per Luigi Martin e Zelia Guerin fu proprio il matrimonio la via ordinaria per raggiungere la santità e per questo i ha dichiarati beati, andando così a fare singolare corona alla loro grande figlia, Santa Teresa di Gesù Bambino. All’inizio, per le disposizioni interiori di entrambi e forse anche per il troppo breve fidanzamento, per dieci mesi orientano il loro matrimonio verso la verginità fisica e ci vuole l’accompagnamento di un prudente confessore per indirizzare entrambi verso il dono di sè e per aprirli alla procreazione. Cominciano a nascere i figli, addirittura nove, ma solo cinque di essi raggiungono l’età adulta. Perché Luigi e Maria conoscono le sofferenze e i lutti delle altre famiglie, soprattutto a quel tempo: la morte, in tenerissima età, di tre figli, tra cui i due maschi; l’improvvisa morte di Maria Elena a neppure sei anni; la grave malattia di Teresa, il tifo di Maria e il carattere difficile di Leonia. Tutto accettato con una grande fede e con la consapevolezza ogni volta di aver “allevato un figlio per il cielo”. Delle altre famiglie condividono pure lo sforzo del lavoro quotidiano, Luigi nel suo laboratorio di orologiaio con annessa gioielleria, Zelia nella sua azienda di merletti: lavori che assicurano alla famiglia una certa agiatezza, di cui tuttavia non si fa sfoggio. Perché in casa loro le figlie vengono educate “a non sprecare” e si insegna a fare del “di più” un dono agli altri. La carità concreta è quella che esse imparano, accompagnando mamma o papà di porta in porta, di povero in povero. Messa quotidiana, confessione frequente, adorazioni notturne, attività parrocchiali, scrupolosa osservanza del riposo festivo, ma soprattutto una “liturgia domestica” di cui Luigi e Zelia sono gli indiscussi celebranti, fatta di pie pratiche sì, ma anche di esami di coscienza sulle ginocchia di mamma e di catechismo imparato in braccio a papà. Zelia muore il 28 agosto 1877, a 45 anni, dopo 19 di matrimonio e con l’ultima nata di appena 4 anni, portata via da un cancro al seno, prima sottovalutato e poi dichiarato in operabile. Luigi muore il 29 luglio 1894 dopo un umiliante declino e causa dell’arteriosclerosi e di una progressiva paralisi. Prima ha, comunque, la gioia di donare tutte le 5 figlie al Signore, quattro nel Carmelo di Lisieux e una tra le Visitandone di Caen. Tra queste, Teresa, morta nel 1897 e proclamata santa nel 1925, che non ha mai avuto coscienza di essere santa, ma sempre ha detto di essere “figlia di santi”, dice spesso: “Il Signore mi ha dato due genitori più degni del cielo che della terra”. Lei, cui la Chiesa riconosce il merito di aver indicato la “piccola via” per raggiungere la santità, confessa candidamente di aver imparato la spiritualità del suo “sentierino” sulle ginocchia di mamma. “Pensando a papà penso naturalmente al buon Dio”, sussurra, mentre alle consorelle confida: “Non avevo che da guardare mio papà per sapere come pregano i santi”. Ora è la Chiesa a “mettere le firma” sulla santità raggiunta da questa coppia: non “malgrado il matrimonio”, ma proprio “grazie al matrimonio”. A portarli sull’altare, l’inspiegabile guarigione, avvenuta nel 2002 a Milano, da una grave malformazione congenita., manco a farlo apposta, di un neonato.
Autore: Gianpiero Pettiti
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Il lavoro o l'educazione dei figli, l'amore coniugale o l'apertura e l'attenzione verso gli altri? Rileggendo la vita di Luigi Martiri e Zelia Guerin, i genitori di santa Teresa di Lisieux, si cerca invano il prevalere di un aspetto o dell'altro nello stabilire quale abbia contato di più nel cammino verso la santità. Perché la loro vita è piuttosto la testimonianza di una quotidianità vissuta alla presenza di Dio.
Luigi Giuseppe Stanislao Martin nacque a Bordeaux, nella Francia sud-occidentale, il 22 agosto 1823, mentre Zelia Guèrin nacque il 23 dicembre 1831 a Gandelain, sobborgo di Saint Denis sur Sarthon nell’Orne, Francia nord-occidentale.
Ebbero nove figli, tra i quali quattro morti in tenera età:
Maria (Suor Maria del Sacro Cuore, carmelitana a Lisieux, 22 febbraio 1860 - 19 gennaio 1940);
Paolina (Suor Agnese di Gesù, carmelitana a Lisieux, 7 settembre 1861 - 28 luglio 1951); Leonia (Suor Francesca Teresa, visitandina, 3 giugno 1863 - 16 giugno 1941);
Elena (1864 - 1870),
Giuseppe Luigi (1866 - 1867),
Giuseppe Giovanni Battista (1867 - 1868);
Celina (Suor Genoveffa del Volto Santo, carmelitana a Lisieux, 28 aprile 1869 - 25 febbraio 1959);
Melania Teresa (16 agosto - 8 ottobre 1870);
Teresa (Suor Teresa del Bambino Gesù e del Volto Santo, carmelitana a Lisieux, 2 gennaio 1873 - 30 settembre 1897).
Nella loro giovinezza avevano aspirato ambedue alla vita religiosa, formarono poi una famiglia, animati dalla preoccupazione principale del bene spirituale delle figlie. Teresa scriverà: "Avevo soltanto buoni esempi intorno a me, naturalmente volevo seguirli". Creano un ambiente familiare di grande laboriosità e di forte sensibilità di fede, che porterà tutte e cinque le figlie a consacrarsi al Signore nella vita religiosa.
Proprio il dolore e la gioia legate ai figli - tre morti ancora bambini, quattro entrate in convento - attraversano gran parte della vita coniugale di Luigi e Zelia, che entrambi, prima del matrimonio, avevano tentato di intraprendere la vita religiosa. “Quando abbiamo avuto i nostri figlioli - scrive Zelia nel 1877, ormai alla fine della sua vita - le nostre idee sono un po' cambiate: non vivevamo più che per loro, questa era la nostra felicità. Insomma tutto ci riusciva facilissimo, il mondo non ci era più di peso”. Non inganni quel "ci riusciva facilissimo": non si riferisce alla facilità delle circostanze, che invece furono durissime, ma alla certezza che quelle circostanze facevano parte di un disegno buono di Dio. E l'amore tra Luigi e Zelia sembra proprio consistere nell'aiuto a scoprire questa positività.
L'affronto del dolore e delle difficoltà è peraltro uno degli aspetti che rende moderna questa coppia di 150 anni fa: l'educazione dei figli è un altro, con un'attenzione centrata su ciò che formava il loro animo. Come si deduce dalla dichiarazione delle figlie al processo di beatificazione di Teresa: “La nostra mamma vigilava con grande attenzione sull'amma delle sue bambine e la più piccola mancanza non era lasciata senza rimprovero. Era un'educazione buona e affettuosa, ma oculata e accurata”. Analoga immagine si ricava dai ritratti che Teresa fa di suo padre (la mamma morì quando aveva appena 4 anni). A questa accuratezza e attenzione non creava ostacoli il lavoro. Già, perché i Martiri lavoravano entrambi, e con mestieri impegnativi: un laboratorio di orologiaio Luigi, imprenditrice tessile lei: “Se avessi lavoro tre volte di meno - scrive Zelia alla cognata - ne avrei ancora abbastanza per non stare spesso senza far niente... ~ un lavoro così dolce occuparsi dei propri figlioletti! Se non avessi da fare che quello, mi sembra che sarei la più felice delle donne. Ma bisogna bene che il loro padre e io lavoriamo per procurare loro una dote”.
In ogni caso la vera dote lasciata dai Martiri è la testimonianza della fede, come dimostra santa Teresa quando ringrazia di aver avuto “genitori degni più del Cielo che della Terra”.
Zelia Guèrin muore di cancro il 28 agosto 1877.
Luigi Martin muore dopo un periodo di malattia a Saint Sèbastien de Morsent, a La Musse, il 29 luglio 1894.
I processi per le Cause di beatificazione e canonizzazione dei Servi di Dio Luigi Martin e di Zelia Guerin, furono istruiti rispettivamente nelle diocesi di Bayeux-Lisieux e di Sées, dal 1957 al 1960, e quindi inviati a Roma.
Queste due cause, condotte poi secondo il metodo storico (singolarmente), sono state presentate alla Congregazione delle Cause dei Santi in un unico studio, sono state discusse dai Teologi e dai Cardinali e Vescovi.
Il 26 marzo 1994 papa Giovanni Paolo II ha proclamato le loro virtù eroiche, e da quel giorno godono nella Chiesa del titolo di "Venerabili".
La loro causa di beatificazione sta sostenendo l'esame della Commissione medica e teologica, che - a poco più di un anno dalla chiusura del processo diocesano a Milano - sta valutando il miracolo attribuito alla coppia, ovvero la vita salvata a Pietro Schilirò, un bambino di Monza nato con una grave malformazione ai polmoni che non lasciava speranza.
La Chiesa li ricorda separatamente: Luigi Martin il 29 Luglio e Zelia Guerin il 28 Agosto, mentre la Diocesi di Bayeux-Lisieux ed i Carmelitani Scalzi ne fanno memoria il 12 Luglio.
Autore: Carmelo Randello - Riccardo Cascioli
m. 1030
Diffuse la fede cristiana e distrusse l'idolatria nel Regno di Norvegia. Fu assassinato dai suoi nemici.
Patronato: Norvegia
Emblema: Corona, Stendardo di battaglia, Scudo, Elmo, Spada, Ascia, Scettro, Globo
Martirologio Romano: A Trondheim in Norvegia, sant’Olaf, martire, che, re della sua gente, diffuse nel suo regno la fede cristiana da lui conosciuta in Inghilterra, debellando con scrupolo l’idolatria, ma morì, infine, trafitto con la spada durante un assalto dei suoi nemici.
Olav II Haraldsson chiamato anche “il Voluminoso”, nacque nel 995 e come era consuetudine del suo popolo vichingo, prese parte ad alcune spedizioni dirette verso l’Inghilterra e l’Islanda.
Fu proprio in Inghilterra che conobbe il cristianesimo e fu battezzato poi nel 1014 a Rouen. Dal 1015 al 1016 fu impegnato, una volta ritornato in Norvegia, a combattere e scacciare Haakon, che già come suo padre Erik-jarl, aveva usurpato il trono, la guerra interna finì con la battaglia navale di Nesjar, il 25 marzo 1016, vinta da Olav che divenne così il re del paese, superando anche il fratello Harald pagano, che lo pretendeva.
Organizzò lo Stato secondo le leggi e le usanze dei cristiani, distrusse il paganesimo; costruì varie chiese facendo venire dall’Inghilterra sacerdoti cattolici e con lui si cominciò ad applicare in Norvegia, il diritto ecclesiastico anglosassone.
Sotto il regno di Olav ‘il Santo’, la Norvegia ebbe un periodo di notevole prosperità economica, anche se il suo governo fu osteggiato dai potenti ‘jarls’ suoi nemici; per costringere all’obbedienza le popolazioni pagane ribelli, si alleò con suo cognato Amund Jacob lottando, con qualche successo, contro Canuto di Danimarca.
Nel 1028 in seguito a lotte più cruente, dovette abbandonare la Norvegia e con i suoi seguaci andò a Gärdarike (sull’isola Gotland, allora governata dai russi) presso suo cognato Jaroslav.
Nello stesso 1028, il partito contrario al suo governo, formatosi in seno all’aristocrazia norvegese, aveva proclamato re, Canuto di Danimarca; nell’estate del 1030, Olav aiutato dagli svedesi, guidando un esercito, ritornò per riconquistare la Norvegia ma il 29 luglio, durante una decisiva battaglia, vicino Nidaros, cadde colpito a morte.
Sul luogo chiamato Stiklestad fu eretta una cappella in legno, sostituita nel 1075 da una chiesa in muratura; qualche tempo dopo a Nidaros fu eretto il duomo nel cui interno furono trasportate le reliquie del santo re, che già nella cappella di legno, erano oggetto di devozione.
Le sue reliquie furono deposte in un magnifico sarcofago d’argento; verso la metà del ‘500, con la venuta della Riforma Protestante, il prezioso scrigno fu portato in Danimarca e fuso.
A seguito dei miracoli avvenuti sulla sua tomba, il vescovo Grimkel decretò il 3 agosto 1031, la sua venerazione come martire. Il duomo di Nidaros divenne per tutto il Medioevo il santuario più famoso della Norvegia e da lì si sparse largamente il culto per s. Olav o Olaf come si chiama in Svezia, che divenne ben presto il santo più popolare del Nord, che nella fantasia del popolo, sostituì o a volte si fuse con il dio pagano nordico Tor.
Il cristianesimo norvegese trovò nella sua figura e nel culto delle sue reliquie, un punto fermo e centrale, mentre la monarchia nazionale che alimentò tale culto, ne guadagnò più prestigio a causa del suo più illustre rappresentante.
Molte chiese furono costruite e dedicate al suo nome, non solo in Norvegia, ma anche in Inghilterra e nei Paesi del Nord; la sua urna veniva portata in processione oltre che nel giorno della sua festa, anche per la cerimonia dell’elezione dei re norvegesi ad Öreting, come simbolo della collaborazione tra la Chiesa e il potere civile.
La Riforma Protestante nei Paesi del Nord, tese a cancellare ogni culto e la stessa memoria del santo, ma da qualche decennio la festa di s. Olav (29 luglio) è stata ripristinata in Norvegia, come giorno di festa nazionale.
È evidente l’importanza storica di Olav per la Norvegia, egli non soltanto è considerato l’organizzatore della Chiesa nel Paese; l’apostolo del cristianesimo affermatosi sul mondo pagano di allora, ma anche come il primo legislatore e nello stesso tempo fondatore del regno norvegese, vincendo lo strapotere degli ‘jarls’, i grandi clan, costringendoli all’obbedienza, nell’ambito di un progetto di unità nazionale.
Autore: Antonio Borrelli
Martirologio Romano: Nella città di Qingyan nella provincia del Guizhou in Cina, santi martiri Giuseppe Zhang Wenlan, Paolo Chen Changpin, seminaristi, Giovanni Battista Lou Tingyin, amministratore del seminario, e Marta Wang Louzhi, vedova, che, rinchiusi in una cava calda e umida, subirono atroci torture, morendo, infine, decapitati per la fede di Cristo.
Boulogne, Francia, 1050 circa – Ghistelles, Belgio, 6/30 luglio 1070 circa
Santa Godeleva nacque da nobili genitori verso il 1050 nei pressi di Boulogne, in Francia. A diciotto anni sposò un signore fiammingo, Bertulfo di Ghistelles, che in seguito la abbandonò affermando che il matrimonio non era stato consumato. Godeleva fu affidata all'ex suocera, che la trattò con notevole crudeltà, così lei preferì tornare a casa dai genitori. Questi si appellarono al vescovo locale, affinché persuadesse Bertulfo a tornare sui suoi passi vivendo con la moglie. Per un certo periodo il marito accettò, ma nel frattempo organizzò il suo assassinio: due servi strangolarono Godeleva e il suo corpo fu gettato in un pozzo. Ciò avvenne tra il 6 ed il 30 luglio dell'anno 1070. L'incertezza dell'anniversario di tale avvenimento ha prodotto nel corso dei secoli il variare della data della festa di questa santa, oggi collocata al 30 luglio dal nuovo «Martyrologium Romanum». Bertulfo poi si risposò, ma sopraffatto dai rimorsi per il crimine commesso decise di terminare i suoi giorni recluso in un monastero. (Avvenire)
Patronato: Mal di gola
Emblema: Corone, Pozzo
Martirologio Romano: A Gistel nelle Fiandre, nel territorio dell’odierno Belgio, santa Godeleva, martire, che, sposata con il signore del luogo, patì molto da parte del marito e di sua suocera, prima di finire strangolata da due domestici.
Santa Godeleva nacque da nobili genitori verso l’anno 1050 nei pressi di Boulogne, nella Francia settentrionale. All’età di soli diciotto anni andò in sposa ad un signore fiammingo, Bertulfo di Ghistelles, che in seguito preferì abbandonarla affermando che il matrimonio non era stato consumato. Godeleva fu affidata allora alla ex suocera, che la trattò però con notevole crudeltà, ed ella preferì dunque fare ritorno a casa dei propri genitori. Questi si appellarono al vescovo locale, affinché persuadesse Bertulfo a tornare sui suoi passi vivendo con la moglie. Per un certo periodo il marito accettò, ma nel frattempo approfittò per organizzare il suo assassinio: per mano di due servi Godeleva venne infatti strangolata ed il suo corpo gettato in un pozzo. Ciò avvenne in una data compresa all’incirca tra il 6 ed il 30 luglio dell’anno 1070. L’incertezza dell’anniversario di tale avvenimento ha prodotto nel corso dei secoli il variare della data della festa di questa santa, oggi collocata al 30 luglio dal nuovo Martyrologium Romanum. Bertulfo poi si risposò, ma sopraffatto dai rimorsi per il crimine commesso decise di terminare i suoi giorni recluso in un monastero.
Tradizionalmente Godeleva è da sempre stata considerata “martire”, anche se è storicamente difficile individuarne il motivo, in quanto non risulta abbia affrontato la morte a testimonianza della propria fede o di qualche altra peculiare virtù cristiana. L’unica possibilità in tal senso è data dal fatto che la sua bontà soprannaturale abbia potuto provocare il marito, spingendolo alla violenza nei suoi confronti. Il luogo del suo martirio, fuori delle mura del castello di Ghistelles, divenne subito meta di pellegrinaggi per la gente del circondario e su di essa si verificarono non pochi miracoli, tra i quali la guarigione dalla cecità di una figlia di Bertulfo nata dal secondo matrimonio. Nel 1084 i resti della santa furono oggetto di ricognizione e poi traslati nella chiesa. I pellegrini erano soliti bere l’acqua di un pozzo, che assunse il nome di Godeleva, in prevenzione al mal di gola, rifacendosi alla leggenda secondo la quale la santa sarebbe morta strangolata. Il suo culto è assai popolare intorno a Boulogne e nelle Fiandre. Santa Godeleva possiede inoltre un’iconografia assai abbondante per essere una santa venerata esclusivamente a livello locale.
Autore: Fabio Arduino
+ 1516
Figlia di Giorgio Arianita e cognata del principe Ivan-i Cronojevic, al quale Eugenio IV aveva affidato il vessillo della Chiesa nella lotta contro i Turchi, Angelina sposò Stefano il Cieco, fratello di Lazaro II Greblanovic. Quando il 21 gennaio 1458 Lazaro morì senza discendenti maschi, Stefano divenne despota di Serbia, ma nel 1467 fu costretto a fuggire con la famiglia per sottrarsi alla pressione turca e si recò in Italia, dove, dieci anni dopo, nel 1477, si spegneva. Angelina si stabilì a Kupinovo (Srem), dove fece traslare il corpo del marito, e, riavuto il titolo di despota alla morte di Zmaj Vuk (1485 o 1486), coniò monete d’argento e d’oro che recavano su una faccia la sua immagine e sull’altra quella dei figli Djurdje e Ivan. Costruì un monastero femminile a Krusedol (Srem) e morì nel 1516. Fu sepolta a Krusedol insieme con il marito e i figli. La Chiesa serba la venera con il nome di “Majka Angelina” il 30 luglio, mentre Stefano il Cieco è celebrato l’11 ottobre, Ivan il 10 dicembre e Djurdje, che si era fatto monaco prendendo il nome di Massimo, il 18 gennaio.
Autore: Augusto Moreschini Fonte:Enciclopedia dei Santi
Oggi celebriamo un Santo vescovo che fu scelto come vescovo, pur essendo sposato! Poi una santa vedova accusata addirittura di omicidio, poi ancora un santo sposo, il Beato Giovanni Colombini, che fu "giullare di Dio" al modo di San Francesco che lasciò nobiltà e ricchezze. E si converte perché la moglie ritarda a fargli il pranzo! Da leggere!
Infine il Beato Francesco, Padre di Famiglia ucciso dalla follia nazista.
Auxerre, Francia, 378 ca. – Ravenna, 31 luglio 448
Germano nacque ad Auxerre in una famiglia di grandi proprietari terrieri. Studiò le arti liberali e poi andò a Roma per acquisire il dottorato in Diritto ed esercitare la professione di avvocato. In seguito, tornato in Francia, divenne governatore della Provincia Lionese Quarta, cui apparteneva Auxerre. Alla morte del vescovo della città sant'Amatore il clero, la nobiltà e il popolo acclamarono Germano. Ceduti tutti i suoi averi ai poveri, durante il suo episcopato diede prova di uno stile di vita umile e austero, rianimò la vita monastica in Gallia e fu protagonista di importanti opere di pacificazione tra popolazioni in conflitto. In Inghilterra, inviato dal papa Celestino I, Germano combatté con successo l'eresia pelagiana e si adoperò in una fruttuosa opera di diffusione della fede cristiana. Morì in missione diplomatica a Ravenna nel 448. Il suo corpo fu immediatamente riportato ad Auxerre. Si racconta che quando il corteo funebre, arrivato a Vercelli entrò nella locale cattedrale, le candele che erano spente si accesero da sole tutte insieme. Il culto di san Germano culto presto si diffuse in tutta la Gallia. (Avvenire)
Martirologio Romano: A Ravenna, transito di san Germano, vescovo di Auxerre, che difese per due volte la fede dei Britanni dall’eresia pelagiana e, giunto a Ravenna per propiziare la pace nella Bretagna francese, fu accolto con onore dagli augusti Valentiniano e Galla Placidia, salendo poi da qui al regno dei cieli.
Ecco un altro santo che proviene, come tanti altri vissuti nell’antichità, specie nell’Alto Medioevo; dalle file dei laureati in Diritto e come professione l’avvocatura.
Figlio di Rustico e Germanilla, il vescovo Germano, nacque ad Auxerre (dipartimento dell’Yonne, Francia); i suoi genitori erano grandi proprietari terrieri, forse di rango senatoriale. Studiò le arti liberali (che nel Medioevo erano sette e divise in due gruppi: arti del ‘trivio’ o letterarie, cioè grammatica, retorica, dialettica e arti del ‘quadrivio’ o scientifiche, cioè aritmetica, geometria, musica, astronomia); quindi studiò quelle del ‘trivio’, e poi andò a Roma per acquisire il dottorato in Diritto ed esercitare la professione di avvocato.
In seguito divenne governatore della Provincia Lionese Quarta, cui apparteneva Auxerre; il 1° maggio 418 morì il vescovo della città s. Amatore, e il clero, la nobiltà e il popolo, come si usava allora, lo scelsero per loro vescovo, pur essendo sposato; le leggi sul celibato ecclesiastico e della nomina dei vescovi da parte del papa vennero più tardi.
Germano comunque si mostrò degno della scelta operata dai suoi fedeli e dal clero; distribuì i suoi beni ai poveri, adottò uno stile di vita umile e mortificato, si comportò con la sua sposa come fosse una sorella.
La sua opera di vescovo fu importante, ammaestrò i suoi chierici e i suoi monaci; sviluppò la vita monastica in Gallia, fondò un monastero maschile sulla riva destra del fiume Yonne dedicato ai Ss. Cosma e Damiano; eresse una basilica a S. Albano martire inglese e un’altra più piccola destinata alla propria sepoltura, dedicata a S. Maurizio e compagni martiri e che in seguito sarà chiamata di S. Germano.
Fece da mediatore verso il capo degli Alani nella regione di Orléans, convincendolo a trattare, salvando così l’Armorica (gli Alani erano una popolazione caucasica, che al seguito degli Unni, penetrarono nell’Europa centrale, contribuendo alla caduta dell’impero romano); prese posizione contro l’eccessivo peso delle imposte pagate dai suoi diocesani.
Ma Germano fu impegnato anche in iniziative pastorali in Inghilterra, delegato dal papa s. Celestino I nel 429-30, contro l’eresia pelagiana ottenendo un netto successo. (Il pelagianesimo fu un movimento ereticale iniziato da Pelagio (360-422) monaco britannico, che accentuando le capacità naturali del libero arbitrio, negava la necessità della Grazia divina per il retto uso della volontà umana).
Nella Pasqua del 430, contribuì alla vittoria dei Brettoni sui Pitti e i Sassoni, facendo gridare loro un fragoroso ‘Alleluia’ che spaventò gli avversari; ritornò in Gran Bretagna una seconda volta nel 445 e certi studiosi dicono, che Germano avesse portato nella grande isola il testo delle ‘Epistole’ di s. Paolo, riprodotto dal ‘Libro di Armagh’; si dice che s. Patrizio, apostolo dell’Irlanda, vivesse ad Auxerre, già al tempo del vescovo s. Amatore e che fosse discepolo di s. Germano.
Suscitò e incoraggiò fra i Brettoni, la vocazione religiosa della giovane s. Genoveffa (patrona di Parigi). Nel 448 infine si recò alla corte imperiale di Ravenna, per perorare la causa dell’Armorica (antico nome della Bretagna) in conflitto con Ezio, vicario imperiale della Gallia, che minacciava di farla invadere dagli Alani.
E durante quest’ultima missione, Germano morì a Ravenna il 31 luglio 448, fra il compianto generale, specie dell’imperatrice madre Galla Placidia e dei vescovi presenti, in particolare di s. Pier Crisologo, vescovo di Ravenna.
Il suo corpo fu imbalsamato, deposto in una cassa di cipresso e riportato ad Auxerre, come da suo desiderio. Il trasporto fu organizzato dalla corte imperiale per mezzo di squadre di soldati; viaggio difficoltoso per un vivo, visto la distanza e la viabilità di allora, figuriamoci per una bara, che ad ogni modo fu venerata al suo passaggio, dalle popolazioni locali.
Il corteo entrò ad Auxerre il 22 settembre 448 e dopo otto giorni di esposizione solenne nella cattedrale, la salma venne inumata il 1° ottobre nella basilica da lui fatta costruire.
Il culto fu immediato non solo ad Auxerre, dove fu il primo santo locale, ma anche in tutta la Gallia, soprattutto presso i re franchi; la festa fu fissata al 31 luglio e la sua tomba divenne meta di pellegrinaggio.
Ancora vivo gli si attribuivano numerosi miracoli; a questo proposito si racconta che quando il corteo funebre, arrivato a Vercelli entrò nella locale cattedrale, le candele che erano spente si accesero da sole tutte insieme, illuminando il tempio dalle prime ombre serali.
Alla sua intercessione, si rivolsero re e regine di Francia in tutti i secoli successivi. Accanto a lui riposano altri cinque vescovi di Auxerre, fra cui s. Gregorio. Parte delle reliquie furono distrutte nel 1567 durante il sacco di Auxerre, operato dagli Ugonotti (denominazione dei protestanti francesi, ispirati al calvinismo ginevrino, responsabili delle Guerre di religione, che insanguinarono la Francia, nella seconda metà del secolo XVI).
Più di 120 Comuni francesi portano il nome di Saint-Germain, anche se non tutti sono riconducibili a lui, perché vi sono altri santi francesi con il medesimo nome.
Autore: Antonio Borrelli
+ Skövde, Svezia, 31 luglio 1160
Era una nobildonna svedese. Rimasta vedova, visse nella preghiera e nel servizio dei poveri. Contribuì pure con larghezza alla costruzione della chiesa della sua città. Essendo stato ucciso suo genero dai propri dipendenti per la crudeltà usata verso la moglie, i parenti di lui accusarono Elena di aver preso parte al delitto. Per sottrarsi alla loro vendetta, andò in pellegrinaggio a Gerusalemme. Dopo un anno ritornò in patria ma, mentre il 31 luglio 1160 si recava alla festa della consacrazione della chiesa di Gòtene, fu assalita e uccisa a tradimento. Fu seppellita nella vicina chiesa di Skòvde, nella provincia di Vastergòtland, e venerata dal popolo come santa, per i prodigi che avvenivano sulla sua tomba. Il primo arcivescovo della Svezia, Stefano, residente a Uppsala, nel 1164 ricevette da Alessandro III, residente a Sens (Francia), il mandato di procedere all'elevazione del corpo della martire.
Etimologia: Elena = la splendente, fiaccola, dal greco
Martirologio Romano: A Skövde in Svezia, santa Elena, vedova, che, ingiustamente uccisa, è ritenuta martire.
E' chiamata anche s. Elin di Vastergotland, dal nome della provincia svedese dove si trova Skovde. Era donna di origine aristocratica, rimasta ben presto vedova, che visse piamente facendo elemosine e contribuendo con larghezza alla costruzione della chiesa della sua città. La leggenda racconta che, essendo stato ucciso suo genero dai propri dipendenti per la crudeltà usata verso la moglie, i parenti di lui accusarono la santa di essere stata l'assassina o per lo meno, di aver preso parte all'omicidio. In seguito a ciò, per sottrarsi alla vendetta, Elena fece un pellegrinaggio in Terra Santa, rimanendo assente per quasi un anno. Ma, ritornata in patria, mentre si recava alla festa della consacrazione della chiesa di Gotene, fu assalita a tradimento e uccisa il 31 luglio 1160. Narra ancora la leggenda che la sera della sua morte un cieco, accompagnato da un bambino, si trovò a passare presso il luogo dell'uccisione ed il bambino scoprì in un roseto, illuminato da una luce che ardeva vivamente, un dito mozzato di Elena, nel quale era infilato l'anello, che aveva portato dalla Terra Santa. Quando il cieco, curvatosi, con l'aiuto del bambino, poté toccare il sangue di Elena e stropicciarsene gli occhi, riacquistò la vista. La leggenda aggiunge che nel luogo dove la santa era caduta, a circa due chilometri da Skovde, sgorgò una sorgente d'acqua, per cui fu chiamato Elins Kalla. Nel 1596, per ordine delI'arcivescovo luterano Angermannus, la sorgente fu riempita di terra, ma l'acqua continuò a sgorgare ugualmente. Vicino alla sorgente esisteva anche una cappella dedicata alla santa, gli ultimi avanzi della quale furono adoperati nel 1759 per la ricostruzione della chiesa di Skovde, divorata da un incendio. Elena fu sepolta nella chiesa di Skovde e il popolo la venerò come santa, specialmente per i prodigi che avvennero, subito dopo la morte, sulla sua tomba.
Secondo la tradizione, il papa Alessandro III, vivamente pregato dal primo arcivescovo della Svezia, la iscrisse nell'albo dei santi nel 1164. Elena era molto venerata anche in Danimarca; infatti nelle vicinanze di Tisvilde, già villaggio peschereccio nel Kattegat che diventò poi stazione balneare, esisteva una località chiamata Helenes Kilde che era visitata, specialmente la vigilia di s. Giovanni, perché restituiva la salute agli ammalati. Parecchi pittori danesi trassero da questa sorgente il motivo per alcuni dei loro quadri. La festa di Elena si celebra il 31 luglio. E' raffigurata con una spada e il dito mozzato su un libro.
Autore: Anna Lisa Sibilia Fonte:Enciclopedia dei Santi
m. Siena, 1367
Nato nel 1304 da una ricca famiglia di Siena, diventava ben presto agiato mercante di lana, tessendo un’ampia rete di rapporti commerciali che lo portano ad entrare nel governo della città. Segue un felice matrimonio, allietato da due figli. Ma una occasionale lettura della vita di una S. Maria eremita in Egitto gli procura una profonda crisi spirituale, una svolta di vita decisiva. Restituisce con l’interesse i ricavati dell’usura e convince anche la moglie ad abbracciare la più austera povertà. I gravi sommovimenti politici della Siena del ‘300 spingono Giovanni a forme pubbliche e perfino plateali di conversione. Lui e la moglie decidono per una “sfacciata pubblicità” al Vangelo. Così diventano sguatteri nel palazzo dove Giovanni era stato governatore di Siena e i loro seguaci, anch’essi nobili, devono farsi mendicanti. La classica cerimonia dell’investitura cavalleresca del tempo diventa il rito con cui i novizi si spogliano in pubblico (come S. Francesco) per vestire di soli stracci, nel bel mezzo della piazza del palio di Siena, davanti all’immagine della Madonna, patrona della città. I suoi seguaci adottavano lo stile dei giullari del tempo nella predicazione per le strade e per le piazze, guadagnandosi l’appellativo di “folli di Dio”. Il governo di Siena decide di allontanarlo come pericoloso, ma lui si trasforma “bandito dagli uomini in banditore di Dio” utilizzando l’esilio per diffondere il suo richiamo al radicalismo evangelico. Morì in pace con la Chiesa dopo esserne stato fieramente perseguitato.
Martirologio Romano: Ad Acquapendente nel Lazio, transito del beato Giovanni Colombini, che, ricco mercante di vesti, si convertì alla povertà e radunò i suoi discepoli nell’Ordine dei Gesuati, che volle poveri di Cristo e sposi di signora Povertà.
Potrebbe essere, a buon diritto, il protettore della nostra epoca, dominata dalla fretta ed in preda ad una perpetua agitazione. Anche lui va sempre di fretta ed è continuamente agitato, anche se è nato 700 anni fa: segno che la fretta è vecchia quanto il mondo e che l’agitazione fa parte del patrimonio genetico dell’uomo. Il beato Giovanni Colombini, un giorno, smette di aver fretta per colpa della fretta e vediamo subito come. Uomo d’affari, banchiere, titolare in Siena di una florida azienda per la vendita all’ingrosso di tessuti di lana con addirittura una filiale a Perugia, si sposa a 40 anni, perché prima, per la fretta, non ne ha mai trovato il tempo e prende in moglie, naturalmente, una nobile ereditiera, Biagia Cerretani, che gli dà due figli, un maschietto e una femminuccia. Ha ritmi frenetici, un’attività intensa, gli piacciono i pasti raffinati innaffiati da vino generoso. Tutto questo fino ai 50 anni e, precisamente, al giorno in cui, tornando a casa, trova il pranzo non ancora pronto, come succede nelle migliori famiglie. Lui, che ha sempre fretta, quel giorno ha più fretta del solito e ci scappa una bella litigata con la moglie. Sbuffa, si agita, protesta, elenca tutti gli impegni che quel pomeriggio lo attendono e che la moglie gli fa ritardare, mentre questa, per calmarlo un po’, gli mette tra le mani un libro preso a caso nella libreria, una Vita dei Santi, che Giovanni, quel giorno davvero furente e più agitato che mai, scaglia in mezzo alla cucina. Perché lui vuole mangiare, non leggere. Si pente però quasi subito di quel gesto, va a raccogliere il libro e, quasi senza accorgersi, comincia a leggere dalla pagina rimasta aperta. E’ la vita di Santa Maria Egiziaca, la prostituta diventata penitente, che gli fa passare di colpo la fretta e la voglia di mangiare. A lettura ultimata, Giovanni è un altro uomo, che vuole solo più imitare quella santità eroica e quella rinunzia totale: un cambiamento completo del suo stile di vita che, come suo solito, vuole fare in fretta. Perché il tempo stringe, ed è urgente dare a Dio quello che finora per la fretta gli ha negato. Comincia a disfarsi della sua florida azienda, dalla cui vendita ricava la bellezza di diecimila fiorini, che utilizza in beneficenza e per sistemare economicamente moglie e figli. Perché anche di loro deve “disfarsi”, anche se il distacco è più duro di quanto potesse immaginare. Povertà, preghiera, penitenza, costante imitazione di Gesù sono il nuovo indirizzo che vuole dare alla sua vita. A piedi nudi, con una tonaca malconcia, comincia a predicare e ad impegnarsi in opere di carità Il gesto di Giovanni Colombini fa scandalo o fa ridere. Soprattutto preoccupa le autorità della ricca Siena, che hanno paura diventi contagiosa quella ventata di rinunzia e povertà che egli si porta dietro. Non mancano, infatti, suoi ferventi imitatori, a cominciare dalla di lui cugina Caterina: tutti “pazzi” per Cristo, in nome del quale Giovanni e Caterina operano anche cose prodigiose se non veri e propri miracoli. Meglio, molto meglio, mandarli in esilio e farli oggetto di scherno, prima che sia troppo tardi. Anche la Chiesa indaga su di lui, ma non trova ombra di eresia, anzi il Papa si affretta ad approvare la regola di quella brigata di “Poveri di Cristo”, alla quale il popolo ha dato il nome di Gesuati, perché “ingesuati”, cioè trasformati in Gesù, essi si sforzano di diventare. Giovanni percorre le città e le campagne della Toscana, mendicando, cantando laudi, recitando preghiere, parlando della bontà di Dio e raccogliendo insulti e derisioni “per amor di Dio”. E’ solito dire: “Pregovi che non vi facciate male per la troppa penitenza, ma datevi più alla carità di Dio e del prossimo e alle mortificazioni”. Oggi la Chiesa fa memoria di lui e della cugina Caterina, fondatrice delle “Povere Gesuate” , perché anche se i loro Ordini sono stati soppressi da tempo il loro esempio continua a scuotere e ad interpellare la nostra debole fede.
Autore: Gianpiero Pettiti
Popowo, Polonia, 26 gennaio 1882 – Kalisz, Polonia, 31 luglio 1944
Franciszek Stryjas, laico della diocese di Kalisz, padre di famiglia, morì vittima dei nazisti dopo atrici sofferenze. Papa Giovanni Paolo II il 13 giugno 1999 lo elevò agli onori degli altari con ben altre 107 vittime della medesima persecuzione.
Martirologio Romano: A Kalisz in Polonia, beato Francesco Stryjas, martire, che nello stesso periodo, sfinito dai innumerevoli supplizi, passò gloriosamente al Signore.
Una storia molto bella, con un fidanzamento ed un matrimonio frutto di un "miracolo"...
Bruxelles, Belgio, 1930 – Motril, Spagna, 31 luglio 1993
Salito al trono in giovanissima età il 17 luglio 1951 all'abdicazione del padre Leopoldo III, regnò sino alla propria morte. Gli anni del regno di Baldovino videro il Belgio impegnato in importanti questioni interne e decisamente proiettato verso una politica comunitaria europea. Durante la sua seconda visita in Belgio, il papa Giovanni Paolo II rese grazie a Dio “per il Re Baldovino difensore dei diritti di Dio e dell'uomo” durante la recita del Regina Coeli di domenica 4 giugno 1995 e pregò la Vergine dicendo “Ti ringraziamo anche, Madre della Grazia divina, per il Re Baldovino, per la sua fede incrollabile e per l'esempio di vita che ha lasciato ai suoi concittadini e a tutta l'Europa. Ti ringraziamo per la forza che ha dimostrato nella difesa dei diritti di Dio e dei diritti dell'uomo, e in particolare del diritto alla vita del nascituro. Ho avuto la gioia di conoscere la profondità dello spirito di Re Baldovino, la sua eccezionale e ardente pietà cristocentrica e insieme mariana. Come non ringraziare lo Spirito Santo per ciò che ha compiuto nell'anima del Re defunto? Che grande esempio ci ha lasciato! Che grande esempio ha lasciato ai suoi concittadini!”. Nel 1990 il re aveva rifiutato di firmare la legge che depenalizzava in modo parziale l’aborto. Questo era stato uno dei tanti suoi interventi in difesa dei diritti dell’uomo a cui fece riferimento il papa. Il 31 luglio 2003, nel decimo anniversario della scomparsa del sovrano, un messaggio dello stesso pontefice ne ricordava l’alta figura “umana, morale e spirituale”. Giovanni Paolo II sottolineò l’esempio che re Baldovino aveva dato al suo paese ed al mondo intero. “La sua vita di servizio, radicata in una profonda relazione con Dio e fondata sui valori essenziali”, si legge, possa incoraggiare il popolo belga a “seguire le sue tracce per edificare una società sempre più giusta e fraterna, nel rispetto della dignità delle persone”.
Il suo modello: un re che si sacrifica per il suo popolo
Figlio del re del Belgio Leopoldo III e della principessa Astrid di Svezia, Baldovino nacque a Bruxelles il sette settembre del 1930 e sin dall’infanzia la sua vita fu segnata dalla sofferenza a partire da quando, a soli cinque anni, perse la madre in seguito ad un incidente stradale e Leopoldo affidò l'educazione dei tre figli Giuseppina Carlotta, Baldovino e Alberto, ad una giovane olandese a cui Baldovino si affezionò profondamente. Nel 1940, all'inizio della guerra, la famiglia reale si rifugiò in Francia, ma, dopo la capitolazione dell'esercito belga, essa dovette fare ritorno in Belgio dove venne tenuta prigioniera dei Tedeschi nel castello di Laeken dal 1940 al 1944. In seguito, Baldovino e il resto della famiglia furono deportati dapprima in Germania e poi in Austria dove vennero liberati dagli americani solo nel maggio del 1945. Anche dopo la fine della guerra, le peregrinazioni dei giovani figli del re Leopoldo non conobbero tregua in quanto il clima politico belga non permetteva al re di riprendere le proprie funzioni e, nel settembre del 1945, egli raggiunse la Svizzera, dove rimarrà con i figli fino al 1950. Tornato in Belgio, un referendum gli accordava una vasta maggioranza favorevole alla ripresa delle prerogative reali, soprattutto da parte delle Fiandre; tuttavia, la Vallonia non era del medesimo avviso e, davanti alle sommosse cruente organizzate contro di lui, Leopoldo, piuttosto che vedere i Belgi affrontarsi gravemente per causa sua, preferì nobilmente abdicare in favore del figlio il sedici luglio del 1951. Baldovino divenne così il quinto re dei belgi all'età di ventuno anni e lo stupendo esempio di un re che si sacrifica per il suo popolo rimarrà profondamente impresso nel suo cuore.
Gli anni del regno di Baldovino videro il Belgio impegnato in decisive questioni interne tra cui la secolare questione che contrapponeva i sostenitori della scuola cattolica e quelli della scuola pubblica e, soprattutto, la progressiva trasformazione del Belgio in uno Stato federale proiettato verso una politica comunitaria europea. Nel 1976, con i fondi raccolti durante i festeggiamenti per il suo venticinquesimo anno di regno, fu istituita la “Fondazione Re Baldovino” con l'obiettivo di migliorare le condizioni di vita della popolazione sul piano economico, sociale, culturale e scientifico. Sul piano internazionale, Baldovino affrontò e promosse da subito la fondazione della CECA nel 1951 e della CEE nel 1957. Ma vero rivelatore della sua personalità fu il primo viaggio nel Congo, allora colonia belga, nei mesi di maggio e giugno 1955 dove fu accolto da una folla esuberante e traboccante di entusiasmo. Forte di quella manifestazione di calore, Baldovino abbandonò il suo abituale riserbo e, di ritorno in Belgio più fiducioso nelle proprie capacità, iniziò a sfoggiare un sorriso che conquisterà irresistibilmente i suoi compatrioti. Poco tempo dopo questo viaggio, annunciò l'intenzione di accordare l'indipendenza al Congo e il trenta giugno del 1960 assistette personalmente alla cerimonia d'indipendenza a Leopoldville. Quattro anni dopo, si recò negli Stati Uniti dove la sua giovinezza ed il suo fascino conquistarono gli americani ed il successo del viaggio fu totale. Nel panorama internazionale, il re Baldovino era già in vita reputato un grande sovrano, tant’è che nel 1960 il re d’Italia Umberto II, che era anche zio di Baldovino in quanto la regina Maria Josè era sorella di Leopoldo III del Belgio e che è a buon diritto da considerarsi un altro grande sovrano cattolico di primo piano nell’Europa del XX secolo, lo nominò Cavaliere dell'Ordine Supremo della Santissima Annunziata, massima onorificenza sabauda. E ancora più significativa in questo senso fu la sua nomina da parte del papa a Cavaliere dell’Ordine Supremo del Cristo, la più alta onorificenza pontificia riservata esclusivamente a quei Capi di Stato cattolici distintisi per particolari meriti verso la Chiesa e la Santa Sede.
Il miracolo di Fabiola
Un giorno di febbraio del 1960, Baldovino passeggiava nel parco del castello reale di Laeken, vicino a Bruxelles, in compagnia di Monsignor Suenens, futuro Arcivescovo di Malines e Cardinale. Nel corso della al solito cordiale e informale chiacchierata il prelato fece qualche riferimento a Lourdes suggerendo al re di recarvisi un giorno in incognito e di mescolarsi alla folla dei pellegrini, ma il re rispose prontamente: “Torno appunto da Lourdes: ci ho passato la notte in preghiera nei pressi della Grotta ed ho affidato a Nostra Signora di Lourdes l'incombenza di risolvere il problema del mio matrimonio”. Grazie allo stesso prelato il re entrò in breve tempo in contatto Veronica O’Brien, l’allora direttrice della Legione di Maria, a cui fece pervenire un invito protocollare per il diciotto marzo 1960 concedendole un’udienza che sarebbe durata ben cinque ore. Tra le tante impressioni che si scambiarono, una fu annotata con particolare attenzione da Baldovino allorché ella gli disse: “Maria è immensamente più interessata al vostro avvenire di quanto possiate esserlo voi medesimo”. Baldovino le confessò il suo desiderio di sposare una donna che condividesse le sue profonde convinzioni religiose. Durante la notte seguente, Veronica percepì una voce interiore che le diceva: “Và a proporre al Re di recarti in Spagna per dissodargli il terreno” e la mattina, durante la preghiera, Veronica capì che l'appello veniva veramente da Dio; al che, sorpreso e commosso, il re le accordò i pieni poteri in materia. Veronica divenne presto valida consigliera del Re non solo sulla questione matrimoniale tanto che gli scriverà un giorno: “Il lavoro più duro incomberà a voi, quello di essere santo al cento per cento, ad ogni respiro. Il che significa: amare ognuno dei figli della vostra grande famiglia. E amare significa andar loro incontro, parlar loro, dedicarsi a loro senza riserve”. Veronica iniziò un'inchiesta sull'apostolato nell'aristocrazia spagnola e ben presto, venne introdotta presso una giovane donna di trentadue anni, Fabiola de Mora y Aragón, piena di vita, d'intelligenza, di brio, di rettitudine, di luminosità, aggraziata e generosa che si occupava instancabilmente dei malati e dei poveri. Quando s'incontrarono per la prima volta, Veronica ebbe immediatamente l'intuizione di aver trovato la persona che cercava. “Come mai non si è ancora sposata?” le chiese. Rispose la contessa: “Finora non mi sono innamorata. Ho messo la mia vita nelle mani di Dio, mi abbandono a Lui, forse Egli mi prepara qualcosa». L’impressione di Veronica fu confermata allorché Fabiola le fece visitare il suo appartamento ed ella rimase sconvolta nel riconoscere, appeso al muro, un quadro che aveva visto in sogno la notte precedente. Il fidanzamento ufficioso fra il Re Baldovino e Fabiola si svolse proprio a Lourdes, l'otto luglio 1960. “Quel che mi piace di più in lei - dirà Baldovino - è la sua umiltà, la sua fiducia nella Santissima Vergine e la sua trasparenza. [...] So che essa sarà sempre un grande incentivo ad amare sempre più Dio”. Il matrimonio fu celebrato il successivo quindici dicembre nella cattedrale di Bruxelles, la cerimonia fu trasmessa dalla televisione e fu la prima volta per un matrimonio della casa reale belga.
“Lasciate che i piccoli vengano a me”
Purtroppo la felicità di questo matrimonio non fu mai coronata dalla nascita dei pure tanto desiderati figli ma Baldovino sapeva che nulla accade se non è voluto da Dio: “Ci siamo interrogati sul senso della nostra sofferenza e, a poco a poco, abbiamo capito che il nostro cuore era più libero per amare tutti i bambini, assolutamente tutti i bambini». A titolo di esempio, è significativo raccontare un episodio: nel 1979, i Sovrani ricevettero a Laeken settecento bambini tra cui, in un angolo, c'era un gruppo di bambini handicappati; ebbene, di quel giorno il re conserverà un ricordo indelebile che così descriverà nelle sue memorie: “Porto un piatto pieno di caramelle ad una piccola che riusciva difficilmente a controllare la sua mano. Con immense difficoltà, riesce ad afferrare una caramella, ma, con mia grande sorpresa, la dà ad un altro bambino. Per un bel po', senza mai tenersene neppure una, ha distribuito i confetti a tutti i bambini sani che la guardavano sbalorditi [...]. Che mistero d'amore in questi esseri fisicamente deformati”. Al termine di tale insolita udienza, Baldovino pronunciò un discorso da cui traspare la sua sincera e accorata ansia per un futuro migliore, è davvero emozionante sentire come un re, un Capo di Stato di quel livello sapeva rivolgersi con candore e semplicità a dei bambini: “Il mondo ha bisogno d'amore e di gioia. Voi siete capaci di darli. È presto detto, ma è una cosa molto difficile. Bisogna esercitarsi e ricominciare tutti i giorni. Facendolo, vedrete cambiare le cose attorno a voi, per esempio, aiutando i vostri genitori, esprimendo loro il vostro affetto, li renderete più felici, darete loro voglia di fare la stessa cosa fra di loro e nei riguardi di altre persone. E così, un po' alla volta, i rapporti fra la gente diventeranno migliori. Provate, perseverate nello sforzo di amare attraverso gli atti. Non scoraggiatevi mai. Se lo farete, ve lo ripeto, vedrete cambiare perfino la faccia delle persone attorno a voi, e, tutte le sere, proverete nel cuore una grande gioia. Diventate costruttori d'amore”.
La vocazione alla carità nella regalità
La preghiera occupava il primo posto nella composizione dell'orario delle giornate del re ed egli vi si dedicava abitualmente all'inizio della mattinata. La Messa quotidiana era per Baldovino il momento privilegiato della giornata tanto che, in tutti i paesi del mondo in cui lo conduceva la sua carica istituzionale, chiedeva che si trovasse un sacerdote per celebrarla. Eppure, l'aridità spirituale non risparmiò nemmeno lui come testimoniano i suoi scritti: “Era quasi sempre difficile rimanere immobile a contemplare Dio nel silenzio e l'aridità della fede”. Baldovino viveva completamente al ritmo della liturgia annotando spesso sull'agenda un pensiero tratto dai testi della Messa, si accostava regolarmente al sacramento della Penitenza e spesso, con la regina, passava un fine settimana di ritiro spirituale. Il colloquio con il Signore, che costituiva la sua preghiera, lo aiutava a porsi in modo veramente cristiano di fronte alle persone che incontrava: “Oggi, proverò ad essere particolarmente attento a tutti coloro che il Signore metterà sulla mia strada”. E, soprattutto, gli permise di sintetizzare l’essenza della vocazione di re in questo modo mirabile: “Dio non ci domanda di essere periti tecnici nei campi più diversi, dalla musica alla politica, ma, guidati dal suo Spirito, di amare gli uomini con il suo Amore, di guardarli con i suoi occhi, di ascoltarli con i suoi orecchi, di parlar loro con le sue parole. Signore, noi, io e Fabiola, lo desideriamo, con tutta la nostra anima”. Conscio dei limiti che la Costituzione imponeva al suo potere, il Belgio, infatti, è una monarchia parlamentare dove il Re non può esprimere pubblicamente le sue opinioni senza l'approvazione del Parlamento, esercitò un'influenza sulla vita politica più attraverso consigli e avvertimenti che attraverso decisioni ma la sincera attenzione alle vicende del suo Paese lo caratterizzò per tutti i suoi quarantadue anni di regno.
Baldovino fu un uomo profondamente credente e tutta la sua vita fu consacrata alla sua fede cristiana e alle sue convinzioni religiose che non accettò mai di compromettere giungendo anche all’eroico atto per il quale giustamente è passato alla storia. Nel 1989 vista la sua ritrosia a firmare una legislazione favorevole all'aborto approvata dal Parlamento, fu temporaneamente esautorato dai poteri regali. Sapendo che avrebbe un giorno dovuto render conto a Dio delle sue decisioni, egli scrisse al Primo Ministro: “Questo progetto di legge solleva in me un grave problema di coscienza […]. Firmando tale progetto di legge [...], giudico che assumerei inevitabilmente una certa corresponsabilità. E questo, non lo posso fare”. Rispondendo alla lettera del re e per uscire dal vicolo cieco in cui si trovava il governo, il Primo Ministro fece appello ad un articolo della Costituzione belga il quale prevede che il re possa, in casi estremi, trovarsi nell'impossibilità di regnare. E il tre aprile, il Consiglio dei Ministri constatò che tale impossibilità era più reale che mai. Lo stesso Consiglio agì dunque come se non ci fosse più il Re e promulgò la legge rifiutata da Baldovino. Ma perchè il Re fosse reintegrato nelle sue funzioni si rendeva necessario un voto del Parlamento; il cinque aprile, avvenne che il successivo voto del Parlamento permise a Baldovino di riprendere il suo posto di Capo dello Stato. La versione che vorrebbe liquidare questo evento epocale come una “autosospensione” del re, anche se molto diffusa, si rivela così essere una calunnia priva di alcun fondamento. Nelle nostre società, sembra che il voto di una maggioranza non possa essere in alcun modo discusso e che esso sia sufficiente per rendere legittima una legge ma non è così e, nella sua enciclica Evangelium vitæ, pubblicata il 25 marzo 1995, Papa Giovanni Paolo II ha eloquentemente ricordato che il voto democratico non costituisce un assoluto e fu lo stesso papa che, ricordando quell’evento durante la sua visita in Belgio, così si espresse a proposito di Baldovino: “È stato un grande custode dei diritti della coscienza umana, pronto a difendere i comandamenti divini, e specialmente il quinto Comandamento: Non uccidere!, in particolar modo per quanto riguarda la tutela della vita dei bimbi non ancora nati”. Dom Antoine Marie osb dell’Abbazia di San Giuseppe presso Flavigny così scrive in una delle sue più famose lettere sui Santi e personaggi in fama di santità parlando di quella sofferta decisione: “San Benedetto ricorda spesso, nella sua Regola, la realtà futura del giudizio di Dio. È questo un pensiero salutare, atto ad illuminare i nostri cuori ed a guidare le nostre vite. Il re dei belgi, Baldovino I, credeva a questa verità fondamentale. Dopo aver rifiutato di firmare la legge sull'aborto provocato votata dal Parlamento, scriveva nel suo diario intimo: Mi sono imbarcato da solo, con la mia coscienza e con Dio”. Tale nobile rifiuto non può che essere il coronamento di una lunga ascensione, spesso dolorosa, sulla via della santità e solo la fedeltà ai doveri del proprio stato nelle singole azioni ordinarie ha potuto preparare il re a questo atto esemplare che manifesta una coscienza retta, perfettamente docile alla voce di Dio. E la coscienza, scrive San Bonaventura, “è come l'araldo e il messaggero di Dio; quel che Egli dice, essa non lo prescrive da sé, ma lo prescrive come proveniente da Dio, come fa un araldo quando proclama l'editto del re”.
“Il re mi ha ascoltato. Ed è stato il solo”
Baldovino riprese le sue funzioni al servizio del paese ma da dieci anni, ormai, la sua salute si era deteriorata ed egli sentiva che la morte si avvicinava. Nel 1991 e nel 1992, subì due interventi chirurgici, di cui uno a cuore aperto. Il ventun luglio 1993, giorno della festa nazionale, si rivolse affettuosamente ai suoi concittadini e, poco dopo, lasciò il Belgio per recarsi in Spagna a riposare ma il trentun luglio del 1993 il Re morì per un attacco cardiaco mentre, appunto, era in vacanza a Montril in Spagna. Fu il fratello Alberto che gli succedette sul trono il nove agosto con il nome di Alberto II. Ai funerali erano presenti numerosi Capi di Stato provenienti da tutto il mondo. La cerimonia si svolse in modo sobrio e semplice, come aveva chiesto Fabiola per rispettare la volontà del defunto marito. L’allora Capo dello Stato italiano Scalfaro di ritorno dal funerale commentava: “Sono ancora toccato, e l'ho scritto in una lettera alla regina Fabiola, dall' incontro, ufficiale e poi privato, che ebbi pochi mesi fa con Baldovino. Aveva una ricchezza umana e una ricchezza religiosa profonde e semplice, senza alcuna pesantezza. Un uomo assolutamente eccezionale”. La testimonianza più grande la diedero, però, i numerosissimi belgi che lo accompagnarono nel suo ultimo viaggio recando cartelli con la semplice ma eloquente scritta “Grazie, maestà” in tutte le lingue, le tre lingue, francese, fiammingo e tedesco, che il sovrano utilizzava alternandole sapientemente nei suoi discorsi per manifestare equidistanza e rispetto per le tre comunità del Paese. Egli difese sempre l'unità del Paese, ma non poté impedire l’insorgenza di una frontiera linguistica poiché il Belgio è composto da tre regioni distinte ognuna con la propria lingua. Il card. Danneels pronunciando l’omelia esequiale elogiò per la sua “carità politica” un uomo che, “credete, ha sempre voluto servire la verità ed ha sofferto per il suo popolo”. Poi proseguì: “Verrà un giorno che la straordinaria dimensione di re Baldovino verrà rivelata. E allora il mondo scoprirà quanto sia stato giusto. Abbiamo perso un re, ma Dio ci ha donato un intercessore. Maestà, pregate per noi”. Al termine della celebrazione, al microfono si avvicendarono alcuni amici e i molti beneficati dal sovrano i quali portavano la loro testimonianza di gratitudine prendendo spunto dai problemi della società civile che tanto erano cari a Baldovino come il dramma degli immigrati e la tragedia dell'Aids. Una menzione particolare meritano l’intervento del giornalista Chris de Stoop, colui che attirò l'attenzione del sovrano per aver fatto un’inchiesta sulla tratta delle donne, e le parole di una delle vittime di questo mercato della prostituzione, la filippina Luz E Oral, la quale ascoltava in lacrime il giornalista che al suo fianco leggeva la testimonianza che lei stessa aveva scritto: “Il re si batteva contro questo commercio del sesso. Ora noi abbiamo perso un amico. […] Vengo da Manila, mi era stato promesso un buon lavoro in Europa. Ma qui alcuni uomini belgi ci hanno chiuso in un club e costrette a prostituirci. Abbiamo pianto, ma nessuno ci ha aiutato. Ci trattavano come schiave. Sono fuggita, ma la polizia mi ha arrestata. L' anno scorso il re e' venuto a trovarci ad Anversa. Eravamo in cinque. Il re mi ha preso la mano e mi ha ascoltato. Ed è stato il solo”. Infine, le note della “Brabanconne” hanno accompagnato la bara di Baldovino nella cripta della chiesa di Nostra Signora di Leaken, dove riposano gli altri sovrani del Belgio.
Così riassumeva i tratti di questa grande figura dell’Europa del ‘900 il cardinale Danneels, sempre nell’omelia per i funerali del re il sette agosto 1993: “Il Re Baldovino aveva un segreto: era il suo Dio, che amava follemente e da cui era tanto amato. Sotto il fogliame delle attività pubbliche e politiche, scorreva una sorgente tranquilla e nascosta: era la sua vita in Dio [...]. Mentre il Re serviva gli uomini, non cessava di pensare a Dio. In ogni viso umano che gli si presentava, ravvisava il viso di Cristo”. E Papa Giovanni Paolo II l'ha definito “re esemplare” e “fervente cristiano” perchè il suo esempio ancora oggi non può che incoraggiarci ad operare per la gloria di Dio nel corso delle nostre azioni quotidiane. Durante la sua seconda visita in Belgio nel 1995, il papa pregò la Vergine Maria dicendo: “Ti ringraziamo anche, Madre della Grazia divina, per il Re Baldovino, per la sua fede incrollabile e per l'esempio di vita che ha lasciato ai suoi concittadini e a tutta l'Europa. Ti ringraziamo per la forza che ha dimostrato nella difesa dei diritti di Dio e dei diritti dell'uomo e in particolare del diritto alla vita del nascituro. Ho avuto la gioia di conoscere la profondità dello spirito di Re Baldovino, la sua eccezionale e ardente pietà cristocentrica e insieme mariana. Come non ringraziare lo Spirito Santo per ciò che ha compiuto nell'anima del Re defunto? Che grande esempio ci ha lasciato! Che grande esempio ha lasciato ai suoi concittadini!.”
Autore: Emanuele Borserini
Note: Per approfondire: Card. Léon-Joseph Suenens - Re Baldovino. Una vita che ci parla - SEI